Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 12 - Edward Gibbon

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starci dal partecipare al dolore e all'ira di Niceta, a quella parte di racconto ove narra la distruzione delle statue di Costantinopoli100. Abbiam già veduto nel corso della presente opera come il dispotismo e l'orgoglio di Costantino, avessero incessantemente contribuito ad abbellire la sua nascente Metropoli. E Dei ed Eroi sopravvissuti alla rovina del Paganesimo, e molti resti di un secolo più fiorente, ornavano ancora il Foro e l'Ippodromo. Dalla descrizione pomposa e ricercatissima, che di parecchi fra questi monumenti ne ha lasciata Niceta101, sonomi studiato di ritrarre il seguente specchio delle cose più meritevoli d'intertenere una erudita curiosità. I. Le immagini de' condottieri dei carri, che aveano riportato il premio, venivano, a spese loro, o del pubblico, scolpite in bronzo, e nell'Ippodromo collocate. Vedeansi questi in piedi sul loro carro nella postura di correre ancora alla lizza; e gli spettatori, ammirandone l'attegiamento, poteano giudicare della somiglianza fra le statue e gli originali. Le più preziose fra queste immagini erano state, giusta ogni apparenza, trasportate dallo stadio olimpico. II. La sfinge, il cavallo marino, e il coccodrillo, si annunziavano, per sè medesimi, lavori egiziani e prede fatte in Egitto. III. La lupa che allattò Romolo e Remo, soggetto egualmente piacevole ai Romani antichi e moderni, non potea però essere stato trattato, prima del declinare della greca scoltura. IV. Un'aquila che tenea fra gli artigli e straziava un serpente, monumento particolare alla città di Bisanzo, veniva dai Greci attribuito alla potenza magica del filosofo Apollonio, che, giusta la lor tradizione, adoperò questo talismano per liberare da velenosi rettili la città. V. Un asino e il suo conduttore, monumento posto da Augusto nella sua colonia di Nicopoli, rammemorava il presagio che aveva annunziata la vittoria di Azio al dominatore del Mondo. VI. Una statua equestre rappresentava giusta la credenza del popolo, il capitano degli Ebrei, Giosuè, nel momento di stendere il braccio per fermare il corso del sole; ma una più classica tradizione soccorreva a scorgere in questo gruppo, Bellerofonte e il caval Pegaseo: e di fatto il libero atteggiamento del corridore, lo mostrava più inclinato a spingersi nell'aere, che a camminare per terra. VII. Un obelisco di forma quadrata, colle sue superficie scolpite in rilievo, offeriva una varietà di scene pittoresche e campestri; augelli che cantavano; villani intenti alle rustiche loro fatiche, o in atto di sonare la cornamusa; pecore che belavano, saltellanti agnelli, il mare, un paese, una pesca, e moltitudine di pesci diversi; amorini ignudi che ridevano, folleggiavano, e gettavansi l'un l'altro le pome; sulla cima dell'obelisco una immagine di donna, che il menomo fiato di vento facea volgere, nominata perciò la Seguace del Vento. VII. Il pastore di Frigia presentava a Venere il premio della beltà, ossia la poma della discordia. IX. Veniva indi l'incomparabile statua di Elena. Niceta descrive col tuono della ammirazione e dell'amore, il piè di lei delicato, le braccia d'alabastro, il labbro di rosa, l'incantatore sorriso, il languore degli occhi, la bellezza delle arcate sopracciglia, la perfetta armonia delle forme, la leggerezza del panneggiamento, la capigliatura che ondeggiar sembrava a grado de' venti. Tanti pregi di avvenenza congiunti insieme, avrebbero dovuto destar pietà o rimorso nel cuore de' Barbari che la distrussero. X. La figura virile, o piuttosto divina di Ercole102, animata dalla dotta mano di Lisippo, avea sì sterminata dimensione, che il pollice era grosso, la gamba alta, quanto è grosso ed alto un uomo di ordinaria statura103. Larghissimi ne erano il petto e le spalle, nerborute le membra, increspati i capelli, imperioso l'aspetto; non gli si vedea nè clava, nè arco, o turcasso, sol la pelle di lione gli ammantava negligentemente le spalle; egli era assiso; stavasi seduto colla gamba e col braccio destri, stesi quanto eran lunghi; il ginocchio sinistro piegato ne sosteneva il gomito, e la testa appoggiata alla mano sinistra: i suoi sguardi pensierosi annunziavano indignazione. XI. Vi si vedeva un'altra statua colossale di Giunone, antico monumento del Tempio samio di questa Dea; solo a trasportarne l'enorme testa sino al palagio, vi vollero quattro paia di buoi. XII. Eravi un terzo colosso di Pallade, o Minerva, alto trenta piedi, che con ammirabile energia, l'indole e gli attributi di questa vergine marziale esprimea. Ragion di giustizia vuole che qui non si tacia, essere stati i Greci medesimi, i quali dopo il primo assedio, mossi da timore e da superstizione, questo monumento distrussero104. I Crociati nella lor cupidigia, incapaci d'ogni gentil sentimento, infransero o fusero le altre statue che ho qui descritte, e il prezzo e il merito lor di lavoro in un momento disparvero. L'ingegno postovi dagli artisti svaporò in fumo, e la materia metallica, convertita in moneta, servì a pagare i soldati. I monumenti di bronzo non sono mai i più durevoli. Di fatto i Latini ben distolsero con stupido disprezzo i loro sguardi, dai marmi animati da Fidia e da Prassitele105; ma eccetto il caso di straordinarj avvenimenti, questi massi inutili alla barbarie sui lor piedestalli rimasero106. I più ingentiliti fra que' pellegrini, quelli che ai diletti affatto barbari de' lor compagni non parteciparono, fecero pietoso uso del diritto conquistato sulle reliquie de' Santi107; laonde cotesta guerra procurò alle chiese d'Europa, una immensità di teste, di ossa, di croci, e d'immagini, e pel numero de' pellegrinaggi ed offerte che queste reliquie produssero, divennero forse la parte più lucrosa dell'orientale bottino108. Molta parte d'antichi scritti, perduti ai dì nostri, eranvi ancora nel dodicesimo secolo; ma poca vaghezza aveano i Latini di conservare, o trasportar volumi in idioma straniero composti. La sola moltiplicità delle copie, può perpetuare carte o pergamene, che ogni eventualità la più lieve basta a distruggere. La letteratura de' Greci racchiudeasi quasi per intero entro i recinti della Capitale109; onde, comunque non conosciamo tutta l'estensione della nostra perdita, certamente non sarebbe fuor di ragioni per noi, il versar qualche lagrima sulle biblioteche, che i tre incendj di Bisanzo distrussero.

Il primo Concilio (V. p. 7) generale di Nicea, l'anno 325, adunato per ordine di Costantino, sostenendo contro i Vescovi Ariani, e contro tutti i loro numerosissimi seguaci la negata divinità di Gesù Cristo, e volendo esprimerla, e determinarla (dopo avere lungamente discussi e sostenuti i motivi di credibilità, contenuti sì nell'antica, che nella nuova Scrittura) col vocabolo consubstantialem da porsi in una solenne, e scritta professione di Fede, fu questa nel Concilio medesimo distesa alla presenza del potentissimo Imperator Costantino, avverso agli Ariani, per dover essere, siccome fu, ed è la regola di fede de' Cristiani di retta regione, vale a dire ortodossi, e che leggesi in Greco, e tradotta in Latino nella grande Collezione de' Concilj del Lebbe, T. 2, p. 31, edizione Veneta del Coletti: eccola.

      Credimus in unum Deum patrem omnipotentem, omnium visibilium, et invisibilium factorem: et in unum dominum Jesum Christum filium Dei, ex patre natum unigenitum, idest ex substantia patris, Deum ex Deo, lumen de lumine, Deum verum ex Deo vero; natum non factum, consubstantialem patri, per quem omnia facta sunt, et quae in coelo, et quae in terra. Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit, et incarnatus est, et homo factus est; passus est, et resurrexit tertia die, et ascendit in coelos, et iterum venturus est judicare vivos, et mortuos: et in Spiritum Sanctum.

      Circa quarant'anni dopo, cioè intorno all'anno 365, il greco vescovo Basilio (nel suo libro dello Spirito Santo scritto al vescovo Anfilochio) disse: Primum igitur, quis auditis spiritus appellationibus, animo non erigitur, et ad supremam naturam cogitationem non attulit? Nam spiritus Dei dictus est, et spiritus veritatis, qui ex patre procedit (Joan. cap. 15), spiritus rectus etc., (Ps. 50). E lo stesso Basilio, che così scrisse al cap. 9 del libro suddetto, ne intitola il cap. 19. Adversus eos qui dicunt non esse glorificandum; e sostiene, che lo Spirito Santo è da glorificarsi. E nell'anno 372, essendo Papa Damaso nel provinciale Concilio Romano II, trattandosi de explanatione fidei, fu scritto; nominato itaque patre et filio, intelligitur Spiritus Sanctus, de quo ipse filius in evangelio dicit «quia Spiritus Sanctus a patre procedit; et de meo accipiet, et annunciabit vobis» (Jo. 15) Collect. Conc. Labbe.

      E nel Concilio provinciale d'Iconio, l'anno 379 (Labbe, ediz. Coletti t. 2, p. 1076-1080), Ansilochio vescovo appunto d'Iconio, ed amico dell'altro vescovo Basilio, disse e scrisse in una lettera sinodale, vale a dire fatta a nome del Concilio, ed approvata, che per malattia Basilio non era venuto al

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<p>100</p>

Niceta, nativo di Cona in Frigia (antico Colosso di S. Paolo) era pervenuto al grado di Senatore, di Giudice del Velo e di gran Logoteta. Dopo la rovina dell'Impero, di cui fu vittima e testimonio, si ritrasse a Nicea, ove compose una compiuta e accurata storia che procede dalla morte di Alessio Comneno insino al regno di Enrico.

<p>101</p>

Un manoscritto di Niceta (nella biblioteca Bodleana) contiene questo singolare frammento che riguarda lo stato di Costantinopoli, e che o ad arte, o per vergogna, o piuttosto per trascuratezza è stato ommesso nelle precedenti edizioni. Lo ha pubblicato il Fabrizio (Bibl. graec., t. VI, p. 405-416), e l'ingegnoso Harris di Salisbury non ha limiti nel lodarlo (Ricerche filologiche part. III, cap. V).

<p>102</p>

Per darne un'idea della statua di Ercole il sig. Harris ha citato un epigramma, e presentata la figura scolpita in una bella pietra; ma questa non offre l'atteggiamento di un Ercole, senza clava, col braccio e la gamba stesa siccome di questa statua vien detto.

<p>103</p>

Ho trascritte letteralmente le proporzioni indicate da Niceta, le quali mi sembrano oltre modo ridicole, e forse ne condurranno a giudicare che il preteso buon gusto di questo senatore ad ostentazione e vanità riducensi.

<p>104</p>

V. Niceta, ove parla d'Isacco l'Angelo e di Alessio (cap. 3, p. 339). L'Editore latino osserva con molta ragionevolezza che lo Storico greco coll'enfasi del suo stile suol fare ex pulice elephantem.

<p>105</p>

Niceta in due passi (edizione di Parigi, p. 360, Fabrizio p. 408) rampogna aspramente i Latini οιτου καλου ανεραστοι Βαρβαροι, Barbari nemici del bello, e indica in precisi termini quanto fossero avidi del bronzo. Non può però negarsi ai Veneziani il merito di avere trasportati quattro cavalli di bronzo da Costantinopoli alla piazza di S. Marco (Sanuto, Vite dei Dogi, Muratori, Script. rer. ital. t. XX, pag. 534).

<p>106</p>

Winkelmann, Storia dell'arti, t. III, p. 269-270.

<p>107</p>

V. nel Gunther (Hist. C. P. c. 19-23, 24) il pietoso furto dell'abate Martino, che trasportò un ricco fardello di questi tesori religiosi nel suo convento. Nondimeno il Santo non andò immune dalla scomunica, e forse dalla taccia di avere violato un giuramento.

<p>108</p>

Fleury, Hist. eccles. t. XVI, p. 139-145.

<p>109</p>

Conchiuderò questo capitolo con alcuni cenni sopra una Storia moderna che descrive colle sue particolarità la presa di Costantinopoli per opera dei Latini; ma venutami fra le mani alquanto tardi. Paolo Ramusio figlio del Compilatore de' Viaggi, ebbe dal Senato di Venezia la commissione di scrivere questa Storia: ma ricevè un tal ordine in gioventù e lo eseguì solamente anni dopo, pubblicando un'opera ingegnosamente scritta che ha per titolo, De bello Constantinopolitano et imperatoribus Comnenis per Gallos et Venetos restitutis (Venezia 1635 in folio). Il Ramusio o Ramnusio, trascrive e traduce, seguitur ad unguem, un manoscritto che ei possedeva del Villehardouin; ma ha inoltre arricchito il suo racconto di materiali greci e latini, e gli andiamo pur debitori della descrizione esatta della flotta, dei nomi di cinquanta nobili Veneziani che comandavano le galee della Repubblica, e per lui sappiamo le circostanze delle opposizioni che, spinto da amore di patria, mosse Pantaleone Barbi contro la scelta del Doge a Imperatore di Costantinopoli.