Gli albori della vita Italiana. Various

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Gli albori della vita Italiana - Various

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a poco a rendere la carica ereditaria nella loro famiglia. Così a Milano s'era insediata la famiglia d'Este, i cui antichi progenitori rendevano giustizia, di padre in figlio, nel palazzo ducale longobardo, la Curia ducis. E questi, o mossi da precoce sentimento d'italianità, o, più verosimilmente, dal desiderio di aumentare, a spese di un sovrano più debole, la loro autonomia, s'erano fatti sostenitori, dopo la morte di Ottone III, di quel valente e infelice Ardoino d'Ivrea, che fu, prima di Vittorio Emanuele II, l'ultimo personaggio italiano, sulla cui fronte si sia posata una corona di re d'Italia.

      Così la famiglia dei conti di Milano provocò le ire di Enrico II, re di Germania, debellatore di Ardoino. Parecchi membri di essa furono arrestati e trasportati in Germania, dove seminavano germi di nuove dinastie; ed essendosi contemporaneamente innalzato il potere degli arcivescovi, questi trasmisero ad altra famiglia di loro fiducia la gerenza degli affari spettanti alla contea. Indi, l'istituzione e l'aumento di dignità dei vice-conti o Visconti, che pure a quell'epoca appaiono nella corte arcivescovile e che, succedendosi ereditariamente essi pure nell'alta intimità coi sommi prelati milanesi, mettono le basi a quella potenza che, trecent'anni dopo, manderà così estesi e così tetri bagliori.

      Senonchè nè il re, nè l'arcivescovo, nè il conte avrebbero potuto reggersi frammezzo a tante incertezze di eventi e di plebi, se ai loro privilegi non avessero cercato appoggio – oseremo quasi dire complicità – nei privilegi di quella classe nobiliare, che ripeteva l'origine sua dall'aristocrazia barbarica e dal primo spartimento delle terre, fatto in odio degli antichi elementi romani.

      Di lì un primo strato di altissima nobiltà cittadina, che nelle storie è chiamata dei Capitani. Non molti e potentissimi, possedevano nella città vasti palazzi e torri merlate, munite a difesa e ad offesa. Avevano clientele assai numerose, vassalli dentro e fuori le mura, tenevano squadre di armigeri, s'erano addossata la custodia delle varie porte della città. Anche in essi il feudo era divenuto ereditario, o per concessione di principe o per lunga tolleranza di usurpazione.

      Ma col rapido movimento della popolazione, specialmente dopo la riforma edilizia di Ansperto, quel primo strato di aristocrazia apparve insufficiente alla sicurezza dei privilegiati. Trecentomila popolani, ormai fattisi agiati colle arti e coi commerci, non subiscono impunemente la dominazione di trecento ottimati. Questi sentirono dunque il bisogno di allargare ad altre famiglie discendenti dagli antichi conquistatori una parte dei vantaggi fino allora esclusivamente goduti dai Capitani. Il feudo aumentò di estensione, perdendo d'intensità. E così vennero costituendosi i Valvassori; nobiltà intermedia fra la plebe e i feudatari maggiori; che stavano coi Capitani, quando il popolo romoreggiava contro questo eccesso di privilegiati, ma che ai Capitani tennero più volte il broncio, perchè non potevano ottenerne quella concessione che i Capitani stessi avevano per sè carpita al supremo signore feudale, cioè la trasmessione ereditaria del beneficio. Nè qui si fermava lo sminuzzamento della classe nobiliare; poichè tra i Valvassori e la plebe sorsero i Militi; un altro stato di popolazione che s'imbrancava fra i minori privilegiati; tratti dall'amor dell'ozio che genera la prepotenza verso le classi inferiori e che di solito s'allea mirabilmente colla servilità verso le superiori.

*

      Qual fosse, in tanto viluppo di arbitrii e di diritti, la confusione delle cose in allora, potrete agevolmente desumerla dalla confusione d'idee ch'io cortamente ho provocato nelle vostre menti con questa faticosa esposizione di poteri, di vincoli e di magistrature. Nessun altro nome infatti adopera un biografo contemporaneo, Vippone, per dipingere in pochi tratti quella situazione: «eodem tempore magna et modernis temporibus inaudita confusio facta est Italiæ…»

      Pure, è proprio da quella confusione che venne una reazione di bene, od almeno di quel bene che nel più cupo medio evo era possibile sognare per popolazioni laboriose e tranquille.

      Una serie di eventi, succedutisi in un periodo di dieci anni, valse a togliere Milano dalla lunga inerzia di servitù e prepararle quel regime di comunale indipendenza che un secolo dopo doveva mostrarsi, colla Lega Lombarda, così maturo e robusto.

      L'uomo che a siffatto movimento diede l'impulso primo e che seppe per alcun tempo vigorosamente capitanarlo – forse inconscio delle sue ultime conseguenze – fu il celebre arcivescovo Ariberto d'Intimiano, probabilmente rampollo della illustre famiglia De' Capitani d'Arsago.

      Piccolo di statura e grande di animo, coltissimo pe' tempi suoi, d'un intelletto audace, d'una volontà ferrea e di smisurata ambizione, Ariberto d'Intimiano fu eletto a governare la diocesi milanese, dopo la morte di Arnolfo, nel 1018. E subito apparve quello che era, un uomo determinato a tenere un gran posto nella storia del suo paese; avido di lotte e pronto a sostenerle energicamente contro tutti; atto al comando e desideroso di esercitarlo senza colleghi; innovatore audace e profondo, che a sostegno della propria tirannia non esitava ad impugnare le armi della libertà, ma che di questa tirannia propria aveva così alto concetto da non permettergli di sopportarne alcun'altra, venisse da Imperatori o da Papi.

      I Papi, egli li accetta, purchè non si mescolino agli affari della sua Diocesi. Quanto agli Imperatori, vuol farli lui. E però, quando si estingue, colla morte di Enrico II, la famiglia imperiale di Sassonia, e fra i principi italiani ricomincia una gara di ambizioni e di candidature dinastiche, egli si reca difilato in Germania, dove quegli elettori avevano acclamato a loro sovrano Corrado di Salico, duca di Franconia; e, ricevuto a Costanza cogli onori dovuti alla sua dignità, senz'altro riconosce il nuovo principe e lo incorona colle sue proprie mani come re d'Italia3.

      Con sì altera disinvoltura non si era usato mai fino allora nominare dei re. Pure, quando Ariberto ritornò, ed in un'assemblea di notabili italiani, convocata nei prati di Roncaglia, diede notizia della nomina così fatta da lui, nessuna voce si alzò a mettere in dubbio il diritto dell'arcivescovo o quello del re. I popolani milanesi riconobbero in Ariberto un padrone, e lo accettarono con gioia, pensando ch'egli avrebbe saputo liberarli dall'unica tirannia lontana e dalle molte vicine. Gli ottimati videro con qualche amarezza che un uomo della loro schiatta e da essi sollevato al principato ecclesiastico facesse così buon mercato delle tradizioni e dei privilegi loro. Suum considerans, non aliorum animum, scrive indispettito il cronista Arnolfo, che ai nobili apparteneva.

      Nondimeno, quando Corrado scese nel 1026 in Italia, Milano lo accolse splendidamente, malgrado o forse anzi perchè Pavia gli aveva chiuso le porte in faccia. Ariberto rinnovò in favor suo la cerimonia dell'incoronazione, nella basilica di Sant'Ambrogio; lo accompagnò a Ravenna ed a Roma, dove il Papa gli pose in capo una terza corona, quella dell'Impero; e, sopravvenuta un'estate di straordinario e micidiale calore, lo ospitò largamente per due mesi, con tutta la sua corte, nelle fresche villeggiature episcopali dell'alta Lombardia.

      Partito Corrado, e rimasto Ariberto più che mai potente e popolarissimo nel paese, incominciò a svolgere quello che ora si direbbe il suo programma politico; vale a dire un'azione personale piena di scatti, di audacie, di prepotenze; diretta ad abbassare le influenze limitrofe per estollere gigante la propria; oscillante fra Cesare e la democrazia; ma coll'evidente promessa che le due potestà non dovessero avere altro rappresentante, altro programma, altri interessi che i suoi.

      Perciò assume contegno di provocazione contro le città vicine, Pavia, Lodi, Cremona; usurpando loro diritti e terre; battendone le forze e umiliandone l'indipendenza. Per ciò largheggia di conforti e di grani, durante una terribile carestia; e visita, con amore e con affettazione, i tuguri popolari, dove lascia elemosine e semina gratitudine. Per ciò offre aiuti militari a Cesare, ingolfatosi in una guerra di successione per la Borgogna; e si unisce a Bonifacio, marchese di Toscana, per ispingere attraverso le Alpi un contingente italiano, che Umberto Biancamano guida su per la valle d'Aosta, e che, sceso nella valle del Rodano, decide efficacemente la contesa in favor di Corrado. Per ciò si bilica fra le parti cittadine, sostenendo i Capitani contro i Valvassori, e Cesare contro i Capitani, e i plebei contro Cesare. Per ciò protegge l'autonomia del clero ambrosiano contro le velleità unificatrici del pontefice romano; e, scomunicato per le sue resistenze, egli, arcivescovo, si ride della scomunica, in un tempo in cui a quest'arma,

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<p>3</p>

Vedi Arnolfo, libro II, c. II.