Gli albori della vita Italiana. Various

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Gli albori della vita Italiana - Various

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fra tanta prosperità, le interne discordie non quetavano, anzi, tratto tratto, prorompevano tremende, specie fra i maggiorenti. Le famiglie più illustri vengono fra loro al sangue: i Giustiniani, i Basegi, i Polani da una parte; gli Istoili, i Barbolani, i Selvo dall'altra. Lo stesso doge Pietro Tradonico è trucidato, non già in tumulto di popolo, ma per mano di congiurati, i cui nomi sono fra i più illustri di Venezia: Gradenigo, Candiano, Calabrisino, Faliero.

      Nè men sinistra quella luce di rivolte civili, che circonda la bieca figura di Pietro Candiano IV, prima esigliato per l'indole fiera e turbolenta, poi con voltabile giudizio, richiamato in patria ed eletto al dogato. Ma presto, lasciato veder l'animo suo, prorompente ad ogni maniera di prepotenza, fu fatto nuovamente segno alle ire di congiurati, che lo assalirono nel palazzo dove trovaron fiera resistenza nelle soldatesche straniere, messe a guardia del doge. Allora appiccarono il fuoco alle case vicine. Quando le fiamme minacciavano al palazzo ducale, Candiano fuggì per l'atrio della chiesa di San Marco, insieme col figlioletto ancora lattante. I congiurati lo scoprirono, s'avventarono su lui, implorante la vita, almeno, pel figlio. Risposero col sangue. I corpi degli uccisi, lasciati per ludibrio insepolti, furono raccolti e seppelliti da un Giovanni Gradenigo, uomo pio, aborrente da quei furori.

      Altre contese sanguinose sorgono fra le due famiglie dei Morosini e dei Caloprini. Un Morosini, mentre esce di chiesa, è trafitto da un Caloprino. I servi, percossi d'orrore, non pensano a brandire le armi, ma raccolgono il ferito e lo trasportano in un monastero, dove spira fra le lagrime e i propositi di vendetta dei parenti colà riparati. I Caloprini fuggono, chiedono asilo alla corte di Ottone II, che coglie tale pretesto per assediare Venezia da ogni parte, perchè non le giungessero vettovaglie e dovesse arrendersi. Venezia resiste e nel 983 si viene alla pace di Verona.

      Più tardi, i Caloprini per intercessione dell'imperatrice Adelaide, ottengono il perdono e il ritorno in patria. Ma gli odî non sono spenti nei Morosini. Una sera, seduti in una barca, tornavano dal palazzo ducale alle loro case, tre giovani Caloprini, allorchè, d'improvviso, assaliti dai Morosini son trucidati con tal furore da farne schizzare il sangue sulle rive vicine. I corpi sanguinosi dei trafitti furono portati da un servitore fedele alla povera madre e alle vedove mogli.

      Strano tempo e strane antitesi! L'odio a canto all'amore, la ferocia alla mitezza; e sconsigliati impeti di plebe a canto a sottili e accorti provvedimenti; e qui levarsi su nel limpido azzurro le bianche chiese e là intorbidar l'aria il fumo degli incendi vendicatori; e dotar monasteri dopo esser corsi alla rapina; e appendere a piè degli altari le spoglie dei nemici; e innalzar preci dopo uccisioni e stragi. Ma sol che lo straniero minacciasse ed offendesse la patria, le discordie tacevano e tutti insieme i cittadini correvano alle armi, animati da un volere comune.

      È di questo tempo il celebre ratto delle spose veneziane, che ispirò la poesia e le arti. È leggenda, è storia? I più vecchi cronachisti, l'Altinate e il diacono Giovanni, vissuto tra il cadere del secolo X, Martino da Canale, che narrò nel XIII, non ne parlano. Certo, a quell'avvenimento vero e leggendario si dee l'origine d'una delle più pittoresche feste veneziane. Non la storia soltanto, anche la fantasia ha i suoi diritti: e l'indagine fredda non ha potuto cancellare dalle pagine della storia questa tradizione di coraggio e di valore. Era costume veneto, l'adunarsi delle fidanzate nella chiesa di Olivolo, il dì secondo di febbraio, perchè dal vescovo fossero le loro nozze benedette. Biancovestite, coi capelli disciolti, ornate di molti gioielli, tenevano in mano una cassetta (arcella), contenente la dote. I pirati slavi approdarono di soppiatto in Olivolo, irruppero nella cattedrale, rapirono le donne, gli uomini e, secondo alcuni, anche il vescovo e i preti, e si diressero verso Caorle, a un porto, chiamato ancora delle donzelle, per dividersi le fanciulle e la preda. Ma i Veneziani, rimessi dal primo sbigottimento, armarono in fretta alcune barche e guidati dal doge, raggiunsero a Caorle i corsari, li assalirono, li sconfissero e ritolsero loro le spose e il bottino. In memoria di questo avvenimento fu instituita la festa così detta delle Marie. Singolarissima e fastosa. La descrivono, tra altri, un documento del 1142 e la Cronaca di Martino da Canale. Quei documenti parlano di ricche compagnie di damigelle portanti vassoi e fiale d'argento, e precedute da trombettieri, di lunghe file di chierici vestiti di sciamiti d'oro e di damasco. Insieme col doge si recavano tutti al tempio di Santa Maria Formosa. Dodici fra le più belle e le più giovani donzelle, le Marie, acconciate molto riccamente con drappi d'oro e corone di pietre preziose, erano presentate al doge e festeggiate poi lungo il Canal grande. La festa durava dal 25 gennaio al 2 febbraio, fra baldorie, regate e spettacoli d'ogni maniera. Così una delle prime e più solenni feste civili dei Veneziani fu un omaggio alla donna.

      Meno gentile, ma non meno singolare sarà la festa commemorante la vittoria sopra Ulrico patriarca d'Aquileia. I Veneziani vittoriosi trassero prigione il patriarca con dodici de' suoi canonici, avendoli, dice Marin Sanudo, il principe dei veneti cronisti, a farli tajar la testa. Ma, ad istanza del papa, furono rimandati, pur che il patriarca dovesse inviare ogni anno, nel giovedì grasso, un toro e dodici maiali – simbolo di scherno del patriarca e de' suoi canonici – per servir di spettacolo alla moltitudine. E la festa del Giovedì grasso, in cui si uccidevano il toro e i maiali, si rinnovò ogni anno con grandi allegrezze e matte baldorie.

      Il sommo della veneta potenza, nel periodo delle origini, fu raggiunto sotto il dogato di Pietro Orseolo II. Ei ricondusse la quiete nella fervida città, aggrandì, non impetuosamente, ma per gradi, lo Stato, riescì, col valore, colla sagacia, colla costanza, ad accrescere e consolidare la propria potenza. La mente avea fine ed aguzza nel trovare ingegni a tenersi bene in arcione tra il Cesare bizantino e l'Imperatore tedesco. Trionfò dei pirati narentani, guerreggiò gli Slavi, conquistò la signoria delle città marittime della Dalmazia, tramandando ai successori il titolo di doge della Dalmazia, liberò l'Adriatico dai Saraceni, che l'infestavano. A buon dritto potè il doge, in appresso, commemorando tali conquiste, sposare il mare con la cerimonia più splendida di tutte le feste veneziane. Nè le arti della pace erano trascurate dal gran doge. Compì una parte della basilica di San Marco nel 1006, e quel turrito palazzo ducale, dove ospitò l'imperatore Ottone III, che ammirò, a quel che ne dice il diacono Giovanni, cappellano del doge Pietro, la bella e decorosa fabbrica. Dopo un secolo, sotto Ordelafo Faliero, si gettavano le basi di quell'Arsenale, che fu il più vasto d'Europa, e che ricordano tutti, più ancora che pei suoi fasti, per la stupenda descrizione di Dante – tanta è la potenza dell'arte.

      Nel secolo XI, può dirsi veramente fondata la marittima signoria di Venezia, e l'Adriatico incominciò da questo tempo a considerarsi come un lago della repubblica. La libertà e il vero spirito dell'antica Roma qui continuavano in tutto il loro vigore. Questo giudizio non è di qualche storico piaggiatore, ma d'una delle anime più nobilmente fiere, che sieno mai passate pel mondo: Ildebrando. Di tanto fe' degna Venezia ardor di speranze e tenacia d'intendimenti. E il meraviglioso espandersi della possanza guerresca e civile si accompagna all'avanzamento dei commerci. Alle inquietudini interne, alle agitazioni civili succede la forte serenità. Vivissimo il commercio. Nelle vecchie carte si parla sovente di carichi di mercanzie pel valore di 150,000 ducati d'oro, di navi cum raxon de drapi, telle et altre cosse de valor de ducati 200,000. E si noti che erano in gran parte piccoli legni, perchè tutti voleano trafficare, tanto che il governo prescrisse con decreto le proporzioni più piccole di uno scafo per avventurarsi in mare.

      Nè men fiorenti le arti e le industrie. – Venezia ha, fin dai secoli più remoti, fonderie di metalli, fabbricatori d'organi, officine di tessitura, di tintoria, di vetreria, fabbriche di sete, lini, velluti, broccati. Le antiche chiese, specie quelle di Grado e di Torcello, scintillavano di mosaici. Negli Annali di Eginardo, si ricorda, all'anno 826, Giorgio, prete veneziano, chiamato in Aquisgrana, per la sua abilità nel costruire organi. Orso I Partecipazio, asceso al trono dogale nell'864, mandò in dono a Costantinopoli dodici campane, e Pietro Orseolo II, fatto doge nel 991, fe' regalo a Ottone III di una tazza di fino lavoro di due troni rivestiti di lamine d'avorio e di una tazza d'argento. Non si può dire che in egual fiore fosse la cultura letteraria, se due documenti sono da due dogi, Pietro Tradonico e Tribuno Memo, firmati così: Signum manus domini excellentissimi Petri ducis e Signum manus Tribuni ducis. Ma fra quel pratico e operoso popolo di navigatori e

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