Gli albori della vita Italiana. Various

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Gli albori della vita Italiana - Various

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accettavano anche la tirannia d'un solo, purchè le liberasse dalla tirannia dei molti. Se l'uomo mancava, o il genio non faceva perdonare la prepotenza, le moltitudini cercavano alla libertà il modo di vincere l'anarchia. Ma ci sono voluti dei secoli – forse ce ne vorranno ancora – perchè la libertà, accettata come il veicolo di un beneficio, diventasse un beneficio per sè. Quelle moltitudini, che nel secolo undecimo avevano saputo disciplinare gli ordigni della libertà, non esitarono a romperli, quando appena un'impressione momentanea portava verso altri orizzonti l'animo loro. La storia può essere interpretata, ma alla storia non può sostituirsi il desiderio. Il vero è che nei nostri grandi Comuni, se della libertà mancò rare volte l'intelligenza, quasi sempre mancò l'amore. Il vero è che nel sagace desiderio dell'ordine, le moltitudini italiane oscillarono spesso e spontaneamente fra i poteri autonomi e i principati sovrani. Poichè non sempre furono i tiranni che strozzarono le libertà; qualche volta le libertà si sono umiliate ai tiranni.

*

      Una riprova di queste induzioni la si troverebbe con poco sforzo nella storia di uno dei maggiori municipi d'Italia; di quello che per la sua giacitura ha subìto prima degli altri, e forse più gravemente d'ogni altro, lo storico avvicendamento delle invasioni, delle liberazioni e delle tirannidi.

      Intendo parlare di Milano.

      Al principio dell'undecimo secolo Milano era forse una delle più popolose città d'Europa, e, senza forse, la più popolosa d'Italia. Era già stata a quell'epoca due volte nella polvere e due volte sugli altari. Nel secolo quarto, come sede del Vicario d'Italia, era considerata la seconda città dell'impero Romano. Il ferocissimo Uraja, condottiero dei Goti, vi sterminò più di 30 mila abitanti e fece della marmorea città un mucchio di rovine. Per tre secoli Milano sparisce quasi dalla storia e perde quei privilegi, che invece usurpano, come più floride, Pavia e Monza. La sola influenza che vi rimane grande è quella dell'arcivescovo; influenza che, per l'indole sua, subiva poco le fluttuazioni della prosperità materiale, conservando quel principato diocesano che si estendeva sopra 24 vescovati suffraganei e sopra un territorio che andava da Genova a Coira, da Mantova a Torino.

      Ed è un arcivescovo, che nel secolo nono ritorna a floridezza e splendore le condizioni di Milano, venute lentamente migliorando sotto il regime dei Longobardi e dei Franchi. Ansperto da Biassono, probabilmente uscito dall'antichissima famiglia dei Gonfalonieri, governò per tredici anni, dall'868 all'881, la sede milanese; vi esercitò potere largo e benefico; mantenne contegno vigoroso contro le pretese di un pessimo Papa, Giovanni VIII; e rialzò, completandola, l'antica cerchia murata, già eretta dall'imperatore Massimiliano e demolita dai Goti. Questo bastò perchè fra gli abitanti della Lombardia, atterriti dalle frequenti scorrerie degli Ungheri e dall'imperversar dei banditi, si determinasse un vasto moto di emigrazione verso la città, dove quelle nuove e solide difese garantivano la vita e gli averi. Rapidamente la popolazione di Milano aumentò; sicchè nel secolo undecimo poteva calcolarsi, secondo il Cibrario, a trecentomila abitanti.

      Questa però era prosperità materiale; che non toglieva l'anarchia delle prevalenze politiche, il mutabile avvicendarsi degli ordinamenti, la moltiplicità dei despotismi e delle giurisdizioni, la tradizione ostinata delle civiche turbolenze.

      Cominciava l'incertezza nella stessa persona del sovrano legale. Ogni morte di principe dava occasione a più guerre, ed ogni volta si mutava la base elettorale o la forma di consacrazione del nuovo Re.

      Dopo Carlo il Grosso, la successione dinastica di Carlo Magno in Italia era finita. Con un po' di concordia, le conseguenze della conquista avrebbero potuto mitigarsi e dar luogo all'instaurazione d'una monarchia nazionale. Invece, due Berengarj, un Guido, un Rodolfo, un Ugo, un Lotario, un'Ermenegarda, riempiono di lotte e di supplizi un secolo intero; dopo il quale, invitati dagli stessi pretendenti, i Re di Germania scendono a rioccupare il feudo italico. Nell'888 Berengario era stato coronato in Pavia, nel 961 Ottone I si fa coronare in Milano.

      Questa mutazione di famiglia dinastica non impedisce che rimangano, sotto i nuovi principi, cogli antichi poteri, i rappresentanti degli antichi regimi.

      Già i Longobardi avevano destinato un Duca a governare la città; e questo teneva il suo tribunale in un palazzo apposito, che si chiamava la curia del Duca, il cui nome, corrotto, vive ancora in una delle località milanesi più note, il Cordusio. I Franchi vi sostituirono un Conte, o piuttosto dei Conti, poichè sminuzzarono il territorio milanese e divisero dalla città i circondari rurali, di cui ciascuno ebbe il suo Conte, e si chiamarono a poco a poco il contado. Poi venne l'epoca della maggiore preponderanza degli arcivescovi; i quali, assenziente l'imperatore Germanico, si sostituirono ai Conti nel governo temporale delle città murate e degli abitanti immediatamente finitimi, distinti allora, per rispetto a quella sacra dominazione, col nome di Corpi santi.

      Senonchè l'appetito veniva anche allora col cibo. L'arcivescovo di Milano, vistosi divenuto quasi un monarca, lottò coi monarchi, e pretese aver egli facoltà di consacrare quei principi da cui veniva poi investito dell'autorità sua. Indi la ragione di nuove lotte e di nuove incertezze nella sovranità. Si cominciò a distinguere, nella stessa persona, la qualità d'Imperatore Romano da quella di Re d'Italia. A Roma si otteneva la corona imperiale dal Papa; la corona reale doveva ottenersi a Milano dal successore di Ambrogio. Naturalmente, se questi Imperatori erano forti, combattevano le pretese dell'arcivescovo; se erano deboli, le subivano. E vediamo infatti che nell'876 Ansperto da Biassono presiede in Pavia una Dieta di vescovi e di conti, che elegge a re d'Italia Carlo il Calvo, già incoronato a Roma. E nel 1027, Corrado il Salico riconosce esplicitamente questo nuovo diritto, dicendo in Roma ai prelati che assistevano all'incoronazione: «sicut privilegium et Apostolicae Sedis consecratio imperialis, item Ambrosianae Sedis privilegium est electio et consecratio regalis2

      A Milano poi – come, del resto, in ogni altra città considerata sotto l'alto dominio feudale – la giurisdizione del principe si esercitava a periodi intermittenti, mediante magistrati speciali, eletti in ogni occasione dal principe stesso, e che passavano sotto la comune denominazione di missi dominici. Era specialmente affar loro amministrar la giustizia, sedere arbitri fra le contese private dei cittadini, reprimere i violenti, difendere, dicevasi, i deboli. In ciò la loro autorità s'intralciava con quella dei duchi, dei conti, dei vescovi, e le decisioni contradditorie aumentavano le amarezze e gli sdegni. Nè questi missi dominici scendevano sempre dalle Alpi a portare la parola imperiale. Più volte quest'autorità si delegava dall'Imperatore a un conte, all'arcivescovo, a questo o quell'altro patrizio importante della città.

      Che poi questi giudici avessero, indipendente da ogni altra, la forza necessaria per far eseguire i loro giudicati, non appar chiaro dai documenti dell'epoca. Se le parti s'acquietavano, il giudice imperiale poteva dirsi fortunato; se non s'acquietavano, chi aveva più forza si sottraeva agli obblighi imposti, e la sentenza non eseguita diventava un disordine, qualche volta un tumulto di più. A buon conto, per le uccisioni, che erano pur troppo allora i delitti più frequenti e più comuni, durò lungamente in vigore una legge di Carlo Magno, conservata dai successori, mediante la quale l'uccisore poteva liberarsi da ogni noia, col tribunale, pagando il vidrigildo (wehrgeld), ossia l'ammontare del valore, a cui era stimata la persona uccisa. È facile vedere a che conseguenze poteva tirare una disposizione di così ingenua barbarie. Non erano i ricchi quelli che valevano meno, e non erano i popolani quelli che potessero permettersi il lusso di simili pagamenti.

      Si aggiunga a queste cause di profondo turbamento materiale e morale l'organismo interno delle classi nobili, dei discendenti dall'antica razza conquistatrice.

      Passato il primo ed aspro periodo dei duchi, di fattura longobarda, e a potere interamente dispotico, i Franchi, ai quali era toccato in sorte regno più vasto e dominazione quasi europea, dovettero moltiplicare i loro conti, e tollerare necessariamente quella maggiore suddivisione di territori e di attribuzioni che corrispondeva alla minore intensità del dominio.

      Elettivi dapprima, per sola e mutevole volontà del principe, come furono generalmente tutti i titolari feudali,

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Arnolfo, libro II, c. III.