Gli albori della vita Italiana. Various

Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу Gli albori della vita Italiana - Various страница 15

Автор:
Жанр:
Серия:
Издательство:
Gli albori della vita Italiana - Various

Скачать книгу

unissero l'utile. E tali arti andarono a mano a mano meravigliosamente avanzando.

      Martino da Canale, narrando l'incoronazione di Lorenzo Tiepolo, nel 1256, descrive con pittoresca efficacia la sontuosa processione delle Arti veneziane: primi venivano i fabbri col loro gonfalone e con ghirlande in capo: poi i pellicciai riccamente addobbati di armellino e vaio, di sciamito e zendado. Seguivano, cantando, accompagnati da trombe, portando coppe d'argento, i tessitori; i sarti in veste bianca a stelle vermiglie: i fabbricanti di drappi d'oro e di porpora, con cappucci dorati in testa e belle ghirlande di perle; e via via i lanaiuoli, i barbieri, i vetrai, gli orefici. Gli orafi specialmente raggiungeano la dignità d'arte più squisita in quei piccoli capilavori di imagini, imitate dai bizantini, in quegli ornamenti d'oro e perle, di cui è perfino menzione nel testamento del doge Giustiniano Partecipazio dell'829, e in quelle catenelle d'oro, preferito ornamento sì delle gentildonne come delle popolane venete. Cito questo lieve, ma non insignificante particolare. Nel 1225, Federico II, il grande sovrano e il grande artista, ordina a un orafo di Venezia una zoia, un gioiello.

      In questo periodo delle origini, la città ha un aspetto singolarissimo. Questa maravigliosa zattera di sabbia e di fango è indefinibilmente strana per forma e non rassomiglia ad alcun altro paese. Il Sannazaro, nel tempo in cui Venezia, un po' invecchiata, incominciava a porgere ascolto benigno alle bugie dei poeti, scrisse un epigramma, che gli fruttò cento scudi per ciascun verso (i versi erano però sei soltanto) e nel quale, comparando Roma a Venezia, conchiude col dire che quella fu fabbricata dagli uomini, questa dagli dei.

      Illam homines dices, hanc posuisse deos.

      Nulla di più poeticamente menzognero. Venezia fu fatta dai Veneziani. Il nume indigete erano la forza, l'operosità, il vigore, il coraggio, l'ardore di quei profughi intrepidi. Per voi, ad esempio, o signori, la patria è un dono, uno splendido dono di Dio – pei Veneziani è l'opera dell'industria umana. Entro questo vostro divino anfiteatro di colline, rigate dai canali freddi e molli, fra la magnifica pompa della verzura e dei fiori, palpita una dolce vita, dove hanno sorrisi tutte le cose, viventi nella felicità di un'armonia serena, armonia dei colori e della luce, del suolo e dello spazio. Qui l'opera dell'uomo è un sublime commento all'opera della natura, e l'arte temperata al sentimento dell'aere circostante, assume una elegante semplicità e compostezza di linee, una nobiltà morale di forme che riposa l'animo e contenta l'occhio. La cupola del Brunelleschi, il campanile, la loggia dei Lanzi, Orsanmichele sono come il compimento di Bellosguardo, di Fiesole, di Monte Oliveto, di San Miniato, e le linee del paesaggio con quelle degli edifizî si fondono nel comune accordo. Venezia invece, eretta sur un labirinto di secche e di paludi, sovra un piano di acque e di alghe, dovea rispecchiar nell'aspetto, fin dall'origine sua, i capricci imaginosi dell'uomo, non già l'impero della natura esteriore. Guardate San Marco, il prodigio dell'architettura veneziana! È una sublime bizzarria. I rosoni, i rabeschi, gli intrecci, i pinacoli slanciantisi al cielo, presentano l'aspetto di una lussureggiante vegetazione di pietra. Le arcate a trifoglio, le aguglie traforate, l'innesto dell'arco acuto sul bizantino, tutta l'opera fine, con la sua ricca veste di sculture e di cesellature, colle sue armonie e co' suoi disaccordi, sembra una vasta sinfonia nel marmo. Nessuna licenza è vietata; simboli di tristezza macilente e di florida giovinezza, figure misticamente rigide e mondanamente voluttuose, vergini e martiri assorti in visioni serafiche, e angeli e beati, vivificati da idee terrene, mostri e chimere del paganesimo a canto ai santi del cattolicesimo. – Tale Venezia. – Percorrendo il Canal grande, ci passano dinanzi fantastiche architetture bizantine, palazzi di stile arabo-archiacuto simili a trine di marmo, edifici del Rinascimento corretti e severi, moli maestose della decadenza dalle bugne massicce, dalle cornici ponderose. Qui l'architettura non ha tradizioni e, tra gli splendori del cielo e le iridescenze delle acque, cresce mobile, varia, fantastica, come le tinte dei tramonti, come i riflessi delle lagune. Nessuna città è passata per più diverse forme.

      L'imaginazione può compiacersi senza allontanarsi dal vero, a raffigurarsi così l'aspetto di Venezia adolescente. Quelle sporgenze dal fondo lagunare, su cui era sorta la città, si chiamavano con varî nomi: dossi, scanni, barene, tombe, velme. Eretta una casa sopra una palude, si chiedeva al governo di estendervisi con interrimenti. E il tributo per la concessione, era alcune volte un bel paio di guanti di camoscio pel doge. I canali (rivuli), che s'incrociavano in ogni parte e si chiudevano per sicurezza con catene, erano fiancheggiati da alberi. Si attraversavano i ponti di legno di brevissimo arco, senza gradini, si seguivano strade lungo i canali, chiamate fondamenta o junctoria, si entrava in certe piazzette anguste (campielli), per certi chiassuoli stretti (calli) e si riesciva all'aperto dinanzi a qualche largo specchio d'acqua (piscina), a seni, a sbocchi, oppure fra verdi prati (herbidi piani), dove pascevano armenti, o in mezzo a folti boschetti. La piazza di San Marco si chiamava brolio, ossia orto, perchè ricoperta d'erba e piantata d'alberi. Apparivano qua e là saline in muratura, e incassati tra argini e canali stendevano i raggi delle loro ruote i molini, chiamati acquimoli. Si camminava sul nudo terreno: i cavalli correvano per la città, e i porci dei monaci di sant'Antonio grufolavano continuamente per le vie – sub specie et reverentia Sancti Antonii vadunt per civitatem – diceva un decreto del Maggior Consiglio. Le case erano, nei primi tempi, coperte di tavolette di legno o di paglia e alcune non aveano altra via che d'acqua. Ogni magnificenza era riservata ai pii edifici e alla dimora del capo dello Stato. E fra le case e sopra i tetti, nettamente intagliate nel pieno azzurro, vele, antenne, cordami. Poi prospetti lontani di altre case e di altre vele, e sullo specchio tranquillo della laguna le svelte navi – le zalandrie, i dromoni, le galee – il cui solo nome, il solo ricordo, ci svegliano nella mente la visione della gloriosa epopea marinaresca delle città italiane. Squadre intere di navigli, che toccavano i porti dell'Asia e dell'Africa e scorrevano i mari del Nord; naviganti che, con la sicurezza della forza e il presentimento della gloria, spingeano la prora così fra le acque su cui si riflette il sole d'oriente, come fra le sconfinate solitudini brumose del settentrione; marinai che passavano a traverso mari inesplorati e toccavano terre ignote, fra gli ostacoli della natura e i più perversi ostacoli degli uomini, fra grida alzantisi nello spazio a osannare al trionfo e urla imprecanti inutilmente alla morte – intrepide avanguardie del progresso umano, della civiltà moderna, della gloria italiana.

      Una sola città avrebbe potuto rivaleggiar con Venezia e metterne in dubbio il primato: Amalfi. Alla città surta là dove il monte cala, lieto di verzura e fiorente di messi, al mare, accorrevano d'ogni fatta stranieri. La descrizione di Amalfi fatta da uno scrittore, a cui la poesia non fa velo alla verità del giudizio, Guglielmo Apulo, non ha nulla da invidiare alle condizioni di Venezia nei tempi più prosperi. Straricca di tesori e frequente di popolo: le case piene d'argento, di stoffe d'oro, di tessuti di seta. I suoi marinai, noti in tutto il mondo, san farsi strada sulle onde, in mezzo ai venti e alle tempeste. Le merci che escono da Alessandria d'Egitto e dalla città d'Antioco sull'Oronte, affluiscono tutte alla spiaggia d'Amalfi. Non v'ha porto in Arabia, nella Libia, in Africa, o nei paesi della Sicilia, che non sia stato visitato dall'Amalfitano. Ma fu luce rapidissima, come fu passeggero lo splendore di Napoli, Gaeta, Sorrento, signore dei mari, ben prima che dalle ruine dell'antica grandezza greco-romana risorgessero le repubbliche di Pisa, di Genova e di Venezia. In sui primordi del secolo XII, la libertà e la prosperità amalfitana furono spente dalla violenza di quegli eroici avventurieri normanni, a cui nulla omai più resisteva in Italia, nulla, tranne Venezia, la quale con la giovanile energia delle sue forze, dopo una fierissima guerra, durata tre anni con varia fortuna e finita nell'agosto del 1085 colla presa di Durazzo, salvò dai Normanni il decrepito Impero bizantino, ottenendone in compenso privilegi importantissimi, nuovi possedimenti, libertà assoluta di traffico e perfino un quartiere distinto in Costantinopoli stessa.

      Qui Venezia si trova di fronte ad altre due città marittime, che andavano anch'esse crescendo in potenza, e alle quali la fortuna della rivale non poteva non destare sospetti e antagonismi, scoppiati poi in sanguinose discordie.

      Pisa non era una nuova venuta. I documenti della sua nobiltà risalivano all'antica civiltà etrusca, alla grandezza romana. Risorta dopo l'invasione barbarica, ebbe a combattere i Saraceni. Ma il valore delle armi non si scompagna agli accorti maneggi del commercio e ai provvidi ordinamenti

Скачать книгу