Gli albori della vita Italiana. Various

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Gli albori della vita Italiana - Various

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di classi, da cui essa sembra minacciata. E questo fu fatto dai Fiorentini nel Medio Evo, quando il dominio della società spettava alla forza, e per tutto regnavano persecuzione e violenza. Fu quello il tempo in cui nell'Italia centrale venne trovata quella forma di contratto, secondo la quale il coltivatore della terra poteva, allora come ora, dire al proprietario: Tu sei il lavoro accumulato dei secoli, io sono il lavoro vivente. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro, diamoci dunque amica la mano, e siamo soci. Così si chiamarono allora, e così si chiamano oggi. E allora come ora, o Signori, il lavoratore dei campi, il quale col sudore della sua fronte feconda la terra italiana, che produce quella ricchezza, che è tanta parte della prosperità nazionale, poteva tornare a casa tranquillo la sera, e godere anch'esso le gioie della famiglia, e sentirsi uomo come noi, e crescere con la sua la nostra felicità. E questo fu fatto dai Fiorentini quando in Inghilterra, in Germania, in Francia i contadini erano schiavi, erano servi della gleba. Quegl'Italiani che emanciparono l'uomo, che emanciparono il lavoro, dovevano pure avere un alto sentimento morale.

      Il marchese Gino Capponi, l'illustre autore della Storia di Firenze, soleva dire che i Fiorentini non avevano mai così bene impiegato il loro denaro, come quando costruirono quel Duomo, che richiamò nella Città tanta gente ad ammirarlo. Ma si potrebbe aggiungere, che essi non furono mai così profondi calcolatori, come quando liberarono i coltivatori della terra, in un tempo nel quale erano schiavi da per tutto. E calcolarono non solo a vantaggio della loro prosperità economica, ma io credo che calcolassero anche a vantaggio della loro prosperità intellettuale e morale. Forse anzi in ciò sta una non ultima ragione del perchè tanto le lettere e le arti progredirono allora in Firenze. Io non credo, o Signori, che sia indifferente agli alti ingegni, i quali spingono sereno, profondo, sicuro lo sguardo nella luce del vero, come l'aquila fissa intrepida il suo occhio nel sole, non credo che sia inutile il non avere lo sguardo turbato dalle ingiuste sofferenze di coloro che onestamente lavorano. Credo invece, che giovi assai agli artisti ed ai poeti, i quali si sollevano nel regno dell'arte; giovi, affinchè le creazioni della loro fantasia serbino tutta la sacra purità dell'ideale, il serbare, con la mente serena, una coscienza non tormentata da rimorsi. – Ma allora quelle immagini divine dei poeti, dei pittori del Trecento e del Quattrocento, di cui parlammo, non ci appariranno più come l'Angelo di Dante nella bolgia infernale, che traversa sdegnoso, frettoloso la palude Stige. Esse non vengono di fuori, sono nate nella coscienza stessa di questo popolo, nei giorni in cui difendeva la libertà e rispettava la giustizia, sono come la sostanza stessa della sua anima. E così, o Signori, voi vedete, io spero, come lo studio delle origini possa gettare una qualche luce o rischiarare anche i fatti della storia posteriore del Comune e della società italiana.

      VENEZIA E LE REPUBBLICHE MARINARE

DIP. G. MOLMENTI

      Signore e Signori,

      E dove a chi potrei oggi meglio parlare di Venezia, se non a voi qui in Firenze, in Firenze così legata alla città delle lagune anche da recenti prove d'affetto? Voi la conoscete, ma è sempre curioso il ricordarla la storia di codeste genti veneziane, che non aspettano la loro fortuna, come limosina dal caso, ma la conquistano colla prodezza e l'accorgimento: si fanno innanzi tra la larva d'impero dei Cesari bizantini e i rinnovantisi invasori stranieri, divengono signori di grandi traffichi e conquistatori di vaste provincie, fiaccano l'orgoglio dei maggiorenti e abbassano l'insolenza del popolo, piantano il vessillo repubblicano sulle torri del palazzo imperiale di Bisanzio, divengono i guardiani d'Italia contro gl'infedeli della religione e gli infedeli della libertà; non s'abbassano mai nè anche quando li stringe da presso il nemico: passano, a traverso la storia, eroi talvolta, talvolta uomini pratici, guerrieri e mercanti, statisti e poeti, accorti sempre, sempre ammirabili. Di questa grandezza, paragonabile nell'antichità alla romana, nel tempo presente all'inglese, io vi accennerò, o signori, alle umili origini, non toccando delle altre gloriose repubbliche marinare d'Italia se non per ciò che con Venezia ha rapporto.

      Quella regione, da una parte racchiusa dall'Adige e dal Timavo, dall'altra lambita dalla curva settentrionale del golfo Adriatico e difesa dalle Alpi tirolesi e carintie, era conosciuta dai Romani col nome di Veneto. Le origini degli abitanti si collegavano ad Ilio, secondo una tradizione non del tutto creata dalla boria nazionale, ma ravvalorata dai versi dell'Eneide (I, 246). Eneti viene dal greco e vuol dire laudabiles, ma ai veneti cronachisti la nobiltà del cuore non basta e trovano che la voce enetici viene da Enea.

      La regione era lieta di città popolose e fiorenti: Padova, Aquilea, Altino, Verona; di paesi ferventi di vita: Ateste, Monselice, Concordia, Treviso, Vicenza, Oderzo, Belluno, Ceneda, Acelo (Asolo). Collocati alle porte orientali d'Italia, caddero primi, nel V secolo, sotto l'impeto delle turbe barbariche, che diruparono dalle Alpi. Gli abitanti, dinanzi a quelle disperate catastrofi, cercarono rifugio là dove le acque dei fiumi dell'Italia superiore, giungendo al mare si fermano, stagnano, si dilatano in lagune. Nulla però in esse d'insalubre. Il Lido, stretta lingua di terra, che separa dal mare la laguna, è rotto in varie aperture, in vari porti, che lasciano libero il corso delle acque. Il flusso marino, che ora copre or lascia a secco quei fondi melmosi, porta via ogni germe mefitico. Nulla di triste. Il cielo, che non splende del troppo vivo fulgore meridionale e non ha la fredda vaporosità del settentrione, si rispecchia nelle acque con quei magici riflessi, con quella smorzatura di toni, con quelle armonie di tinte, che educarono l'occhio dei pittori veneziani. Erano isole, se non deliziose e frequenti, come alcuni sognarono, non abbandonate e squallide, come credettero altri, e abitate e conosciute dai naviganti del tempo romano. Si può arguir ciò da alcuni passi che a quelle isole si riferiscono in Mela, in Tacito, in Plinio, nell'Itinerario di Antonino, in Erodiano. I due limiti estremi della regione insulare, non esposta all'ira degli invasori, cui mancava il navilio, erano, da una parte Grado, dall'altra, Capo d'Argine.

      Chi dirigeva quei profughi, chi li guidava? Poetiche leggende ci sono tramandate da una vecchia cronaca, chiamata Altinate, perchè uno degli aneddoti in essa contenuti e scritti anche prima del secolo X, si riferisce ad Altino, città prospera per commercio, magnifica per edifici, fra i quali un palazzo imperiale, e per l'amenità delle ville, degne di rivaleggiare con quelle di Baja, a quanto afferma Marziale:

      Æmula Bajanis Altini litora villis.

      I primi cronachisti veneti illuminano di luce poetica e religiosa le antiche dimore dei loro padri. Tutti i grandi popoli, dalla Grecia e da Roma a Venezia, hanno carezzata la loro origine leggendaria, e più da essa si sono allontanati, grandeggiando, più si compiacquero non a collegarsi con umili e rozze origini storiche, sinceramente esplorate, ma con quel vago e indefinito della leggenda, che ritrova anche nei primi albori della vita la grandezza. Così le città greche rannodarono le antiche origini con gl'Iddii. Narra la cronaca d'Altino come agli Altinati e agli Aquileiesi Iddio abbia manifestata l'imminente venuta degli Unni. Ciò avveniva nel 452, e si sa come siano intimamente collegate l'origine di Venezia e la leggenda di Attila, intorno alla quale si raccolse ogni ricordanza di distruzione, di sangue, di stragi. Gli uccelli nidificanti nelle mura e sulle torri di Altino fuggirono portando nei becchi i loro nati. Non sapendo una parte di cittadini dove trovare uno scampo, dopo un digiuno di tre giorni pregarono Iddio di manifestar loro se dovessero affidarsi alla terra o alle navi. Si udì una voce: Ascendete sulla torre e guardate verso la parte australe. Molti montarono sulla torre e videro in vicinanza alcune isole, e per tali figure s'intese che doveasi andar là ad abitare. Un terzo circa di cittadini, preceduti dai tribuni e dal clero, si diresse con barche alle lagune e fondò la celebre Torcello. Due sacerdoti, Geminiano e Mauro, incuoravano i fuggitivi e gli spiriti atterriti si commovevano, si sublimavano nelle visioni dell'infinito. Appariva allora a Mauro una bianca nube, dalla quale, insieme con due raggi di sole, scendea la voce di Dio, che imponeva di innalzare in quel luogo una chiesa. Alla voce di Maria, che dava, in altro sito, lo stesso comando, seguiva un prodigioso miraggio: le bianche nubi si squarciarono e lasciarono vedere lidi fiorenti, pieni di popolo e di gregge.

      Altri Altinati andarono ad abitare Amoriana o Murano.

      Una cronaca, di poco posteriore all'Altinate, quella di Grado, narra che il patriarca Paolo, ritornando coi profughi all'antica patria, Aquileia, ebbe

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