Gli albori della vita Italiana. Various

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Gli albori della vita Italiana - Various

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Così che non errava il Machiavelli affermando Venezia, forse più d'ogni altro comune italiano dell'età di mezzo, aver provato il furore delle fazioni.

      Codeste terribili agitazioni doveano metter capo all'invasione straniera. Ma Venezia, destinata ad accogliere le fatidiche memorie del popolo italiano, escì salva dalle turbolenze, che ne comprometteano la libertà e l'esistenza.

      Obelerio, appena eletto al dogato, era andato, insieme col fratello Beato, a Diedenhofen, dove allora teneva corte l'imperatore Carlo, per rendere omaggio di sudditanza ai principi franchi, che agognavano il dominio anche del veneto litorale. Ma ritornato in patria, quando una flotta greca, sotto il comando di Niceta, approdò alle isole, il doge infido, mutò intendimenti, accostandosi ai Greci. Allora, il figlio di Carlo Magno, Pipino, con forte esercito e numerosa squadra di legni, invase e distrusse gran parte del ducato veneziano, minacciando da presso la capitale Malamocco. Nel supremo pericolo si accetta il consiglio del nuovo doge Agnello Partecipazio, di rifugiarsi nella umile isoletta di Rialto, ove erano le offese più pronte e le difese più sicure. Pipino, dice la tradizione, vuol inseguire i fuggitivi: fa costruire con sassi e fascine un argine, presso Rialto, e ordina ai suoi cavalieri di avanzarsi. Ma i cavalli dei Franchi sulla strada malferma, s'impauriscono, balzano di qua e di là nell'acqua, i Veneti piombano colle loro navi sui nemici sgominati e ne menano tal strage, che a quelle acque rimase il nome di canale orfano per le famiglie franche private de' loro cari. L'orgoglio nazionale ha abbellito coi colori della leggenda la vittoria dei Veneti contro il primo usurpatore, che osasse mettere il piede sul sacro suolo della patria. Le tenebre di questa età tempestosa son come solcate da un bagliore dell'antica gloria. E certo, in mezzo alle lotte fratricide di quei tempi, non ispirate se non all'odio ed alla rapina, questa può anche dirsi la prima vittoria italiana. E il nome sacro d'Italia, offuscato da tante ignominie, era raccolto con tanta pietà sul lembo estremo della penisola, nell'umile isoletta di Rialto. Ed era bene affidato.

      Quella stessa incomposta ardenza dovea, per fatalità storica, mettere capo a leggi di moralità e di giustizia; quelle lotte erano pur segnale di molta ed esuberante vita, e per questa via si dovea compire la legge del progresso veneziano. Quando invece sull'alba della vita popolare il dispotismo di un tiranno mette il suo volere in luogo della libertà popolana, la quale deve manifestarsi con tutti i suoi errori e tutti i suoi eccessi, gitta i semi di rivoluzioni, che scoppieranno più tardi e lascieranno turbamenti perenni. Così nella vita dell'uomo: alle giovinezze agitate succede la seria virilità, laddove all'età matura sono riservate le follie, che la gioventù non commise. La vita non soffre violazioni.

      A Rialto comincia la città nobile e grande, con lei e per lei stanno la forza e l'avvenire. Rialto, che si denominava così o da un fiumicello Prealto, o dall'importanza del canale o rivo, divenne il centro della nuova potenza. In essa la sede vescovile, il porto e i magistrati, officiales de Rivoalto. Per lungo tempo Rialto significò Venezia, laddove il dogato, l'antico Stato da Grado a Capodargine si chiamò invece Venecia.

      Della vittoria su Pipino manca la certezza storica: certo è che il giovane re, disperando di soggiogare i Veneti nel sicuro asilo di Rialto, fu costretto a ritirarsi. Da questo momento cessa nei Franchi ogni idea di conquista su Venezia. Nel definitivo accomodamento fra Carlo e l'imperatore d'Oriente, nei preliminari della pace di Aquisgrana dell'810 e nella pace definitiva dell'812, Carlo rinunzia esplicitamente ad ogni pretensione sulle isole della laguna, riconosciuta come provincia dell'Impero d'Oriente. Col trasferire la sede del governo in Rialto non si era voluto soltanto provvedere alla sicurezza dello Stato, ma s'era anche obbedito all'alto concetto di raccogliere e fondere in luogo senza anteriore importanza, gli elementi migliori di varia origine, dispersi per l'estuario. La prima capitale Eraclea avea rappresentato il predominio greco, poi Malamocco la tendenza verso i Franchi. Rialto significava l'indipendenza, la patria libera da ogni influsso straniero. E si sentì fin dalle prime che la nuova patria era stabile e sicura. Bisanzio, è vero, esercitava ancora una azione su Venezia: i dogi cercavano sempre a quella corte dignità e uffizî, troppe erano ancora le relazioni scambievoli, troppi gl'interessi della vita veneziana, maturata al caldo sole d'Oriente. Ma non era più che un'azione di nome. Che poteva aver di comune, quale autorità esercitare un Impero, nato nella mollezza, fra le ambizioni delle donne e le basse adulazioni dei cortigiani, fra le lusinghe e le menzogne, e volgente alla fine, svigorito dalla decrepitezza, con un popolo fiorente di gioventù, ricco di giovanile baldanza? La vigorìa e la gioventù non furono contaminate dalla vecchiezza e dal vizio.

      Venezia passa dall'adolescenza alla giovinezza robusta. Gli stessi scompigli dei primi tempi fanno prova di eccesso di vigoria, della necessità di azione; di quella inquietudine che cerca trar fuori l'ordine dalla confusione delle cose. Agnello Partecipazio (811), primo doge in Rialto, assoda lo Stato, abbellisce la nuova sede, unisce con ponti i sessanta o settanta dossi che formano la nuova città, bonifica i terreni paludosi, crea un magistrato per assicurare i lidi dall'impeto delle acque. Anche qui il primo pensiero è rivolto a Dio, anche qui intorno alle chiese, quasi a cercare la solenne protezione del cielo, si fabbricano le case. E le chiese non sono già, come nei primi tempi di tavola e di canne, fabricæ lignæ, ma si costruiscono di pietra e si abbelliscono di marmi e colonne. Giustiniano, figlio di Agnello Partecipazio e collega nel dogato al padre, fra l'813 e l'820, fondava per incarico dell'imperatore bizantino Leone, un monastero di donne dedicato a san Zaccaria. L'imperatore mandò da Costantinopoli alcuni architetti, perchè l'opera fosse condotta a termine il più presto possibile. E, circa nello stesso tempo, il doge Agnello gettava le fondamenta di quel palazzo, che dovea servir di dimora ai reggitori del più gagliardo Stato d'Europa. Ma per mostrare come legami di sudditanza non esistessero più col decrepito impero di Costantinopoli, la nuova libertà è posta non più sotto il protettorato dell'antico patrono greco Teodoro, ma di un Santo, congiunto ai sentimenti e alle aspirazioni nazionali. Narrava una leggenda che l'evangelista Marco nel suo viaggio da Alessandria ad Aquilea, colto da una bufera, era stato gettato sulle isole realtine, ove un angelo gli era apparso salutandolo: Pax tibi, Marce, Evangelista meus. E in suo fatidico accento, il messo di Dio gli annunziava che là fra quelle isole, chiamate un giorno a meravigliosa prosperità, avrebbero trovato pace le sue ossa.

      La leggenda servì mirabilmente a quella specie di misticismo ufficiale, che, come ben fu detto, nessuno Stato ebbe in grado maggiore di Venezia. Tutto ciò che si riferisce all'innalzamento del tempio, dove, secondo l'angelica previsione, dovea trovar riposo il corpo dell'Evangelista, è come avvolto da un'aura di misteriosa poesia. Strano il modo con cui da Alessandria furono trasportati nelle isole realtine i resti di san Marco. Due mercanti, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, nell'828 approdavano ad Alessandria, dove i cristiani erano perseguitati dai musulmani, che spogliavano di quanto contenevano di più prezioso le chiese, per adornarne moschee. Anche il tempio dove era la tomba di san Marco dovea essere distrutto. I due mercanti veneziani poterono ottenere dai sacerdoti greci quelle sacre reliquie, e per sottrarle alle indagini dei gabellieri musulmani, le coprirono di carni porcine, avute in orrore dagli islamiti. Recata quindi la salma sulla nave, spiegarono al vento le vele, approdarono alla patria, fra le festose accoglienze del doge e del popolo. La santa reliquia fu riposta in palazzo ducale fin che si fondasse il tempio, in omaggio del nuovo protettore.

      Sotto Giovanni Partecipazio, nella chiesa, ridotta a buon termine e adornata di colonne e marmi finissimi, spoglie di vittorie sui Saraceni, si trasportò il corpo dell'Evangelista, il cui nome fu invocato nelle sventure, nelle gioie, nelle battaglie, nelle vittorie. E Venezia, che diverrà una delle prime potenze denaresche d'Europa, quasi a bene augurare de' suoi commerci, stamperà il busto nimbato di san Marco sulle sue monete; e l'animale simbolico dell'Evangelista diverrà ben presto il segnacolo glorioso della repubblica, e nell'edifizio, sacro e inviolato sepolcro del Santo, si svolgerà una serie di avvenimenti, nei quali si riassume quanto v'ha di più glorioso nella veneta storia.

      Se Venezia potea dirsi indipendente dall'Impero bizantino, non avea, d'altra parte, più a temere le forti razze del settentrione. Colla potenza Carolingia, minacciosa un dì per la libertà veneziana, la giovane repubblica potea ora trattare da eguale ad eguale. Lodovico II, nell'855, si reca insieme con l'imperatrice, insino a Brondolo, presso Venezia, per onorar di una visita il doge Pietro

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