Una Ragione per Nascondersi . Блейк Пирс

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Una Ragione per Nascondersi  - Блейк Пирс Un Mistero di Avery Black

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al lotto dove erano stati trovati i resti. Sempre efficiente e sollecito, O’Malley aveva già allontanato la polizia dalla scena. Immaginò che lo avesse fatto non appena la scientifica era passata a raccogliere i resti.

      Andò dove erano state abbandonate ossa e ceneri e si fermò lì, guardandosi intorno. L’area paludosa dietro al terreno era più visibile che mai da quella posizione. Era molto vicina e meno allo scoperto del resto del lotto. Quindi perché qualcuno avrebbe voluto abbandonare le ossa nel bel mezzo di un terreno abbandonato piuttosto che nel ruscello infestato dalle erbacce? Perché lasciare i resti all’aria aperta invece che nasconderli tra la melma e l’acqua stagnante?

      Era una domanda su cui aveva già riflettuto. E nella sua mente, la risposta era la prova che avevano davanti un serial killer.

      Perché vuole che la gente veda il suo operato. È orgoglioso e probabilmente anche un po’ arrogante.

      Probabilmente era anche una persona intelligente. L’uso della nebbia per nascondersi indicava che aveva pianificato bene gli eventi. Doveva aver controllato il meteo con cura per assicurarsi che ci fosse abbastanza foschia. Doveva anche conoscere relativamente bene la zona. La sua pianificazione doveva essere stata meticolosa.

      E il fuoco… doveva conoscere bene il fuoco. Per bruciare un corpo tanto accuratamente senza annerire o danneggiare altrimenti le ossa serviva pazienza e dedizione. L’assassino doveva davvero sapere molto sul fuoco e sul processo dell’incenerimento.

      Incenerimento, pensò. Fuoco.

      Mentre studiava la scena del crimine e immaginava l’assassino in piedi al suo posto, sentì che le stava sfuggendo qualcosa, un indizio cruciale che le stava proprio sotto il naso. Ma tutto ciò che riusciva a vedere era la zona paludosa e fangosa in fondo alla proprietà, insieme al piccolo riquadro di spazio dove una povera vittima era stata abbandonata come se non fosse stata altro che un comune mucchio di spazzatura.

      Si guardò di nuovo intorno nel lotto vuoto e si chiese se il luogo del ritrovamento dei resti non fosse importante quanto credeva. Se l’assassino usava il fuoco come mezzo per inviare un messaggio a qualcuno (alla vittima o alla polizia), forse era su quello che avrebbe dovuto concentrarsi.

      Mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua mente, tirò fuori il cellulare e chiamò il taxi più vicino per farsi portare via di lì. Dopo la chiamata e aver richiesto il taxi, guardò tra i suoi contatti e fissò il nome della figlia per cinque secondi.

      Mi dispiace così tanto, Rose, pensò.

      Premette CHIAMA e si portò il cellulare all’orecchio, mentre il suo cuore andava in mille pezzi.

      Rose rispose al terzo squillo. Subito sembrò felice. Avery sentì della musica che risuonava fioca in lontananza, si immaginò la figlia che si preparava per il loro pomeriggio insieme e si odiò un po’.

      “Ehi, mamma,” disse Rose.

      “Ehi, Rose.”

      “Che succede?”

      “Rose…” iniziò. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Guardò il lotto abbandonato alle sue spalle, cercando di convincersi che doveva farlo e che un giorno, Rose avrebbe capito.

      Senza che Avery aggiungesse un’altra parola, Rose apparentemente colse il senso della chiamata. Emise una breve risatina amara. “Perfetto,” disse la ragazza, senza più gioia nella voce. “Mamma, mi stai prendendo per il culo?”

      Avery aveva già sentito imprecare la figlia ma quella volta fu una pugnalata al petto perché se lo meritava.

      “Rose, mi hanno affidato un caso. È una brutta faccenda e io devo…”

      “Lo so che cosa devi fare,” la interruppe Rose. Non gridò. Quasi non alzò nemmeno la voce. E in qualche modo, ciò rese tutto peggiore.

      “Rose, non posso farci niente. Non mi aspettavo di certo che succedesse una cosa del genere. Quando mi sono organizzata con te, pensavo che avrei avuto un paio di giorni liberi. Ma è spuntata questa faccenda e… beh, le cose cambiano.”

      “Immagino che succeda, a volte,” disse Rose. “Ma non con te. Con te, le cose sono sempre le stesse… quando si tratta di me, per lo meno.”

      “Rose, questo non è giusto.”

      “Non cercare neanche di dirmi che cosa è o non è giusto! Sai che c’è, mamma? Lasciamo perdere. Questa volta e qualsiasi altra volta ti venga in mente di giocare alla Buona Madre in futuro. Si vede che non è destino.”

      “Rose…”

      “Lo capisco, mamma, davvero. Ma tu ti rendi conto di quanto faccia schifo avere una donna come te per madre… una donna forte con un lavoro impegnativo? Una donna che rispetto moltissimo… ma che continua a deludermi, una volta dopo l’altra?”

      Avery non sapeva che cosa dire. E non avrebbe avuto importanza, perché Rose non ne poteva più.

      “Ciao, mamma. Grazie comunque per avermi avvisata in anticipo. Meglio così che se mi avessi dato buca, immagino.”

      “Rose, io…”

      La linea cadde.

      Avery infilò il cellulare in fondo alla tasca e fece un respiro profondo. Dall’occhio destro le scivolò un'unica lacrima lungo una guancia e se l’asciugò il più rapidamente possibile. Poi camminò deliberatamente verso l’area che quella mattina era stata cordonata con il nastro della scena del crimine e la fissò a lungo.

      Fuoco, pensò. Forse è più di qualcosa che il killer usa per colpire. Forse è simbolico. Forse è il fuoco l’indizio più importante.

      E quindi mentre aspettava l’arrivo del taxi, pensò al fuoco e a che genere di persona avrebbe potuto usarlo per inviare un messaggio. Era difficile riuscire a comprenderlo, dato che conosceva molto poco della piromania.

      Devo parlare con qualcun altro di questa faccenda, rifletté.

      E con quel pensiero tirò fuori il cellulare e chiamò il quartier generale dell’A1. Chiese di farsi passare Sloane Miller, la psicologa dell’A1 e strizzacervelli di fiducia per gli agenti e i detective del distretto. Se qualcuno poteva capire la mente di un assassino con il fuoco nel cervello, quella era proprio Sloane.

      CAPITOLO SETTE

      Avery tornò al quartier generale dell’A1 mezz’ora più tardi. Una volta entrata, non prese l’ascensore fino al suo ufficio. Invece rimase al primo piano e si incamminò verso il fondo dell’edificio. Era già stata lì, quando le era stato ordinato di parlare con Sloane Miller, la psicologa del dipartimento, durante il suo ultimo difficile caso, e aveva avuto su di lei un effetto che ancora non aveva compreso appieno. Ma in quel momento stava andando dalla psicologa per altri motivi… per avere accesso alla mente dell’assassino. Essendo nel suo elemento, quella visita le sembrò più rilassata.

      Arrivò all’ufficio di Sloane e fu sollevata di trovare la porta socchiusa. Sloane non aveva un’agenda di appuntamenti vera e propria, per le forze dell’ordine era più una risorsa del tipo ‘chi prima arriva meglio alloggia’. Quando Avery bussò alla porta, sentì che la psicologa stava scrivendo qualcosa al suo portatile.

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