L'esclusa. Луиджи Пиранделло

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L'esclusa - Луиджи Пиранделло

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quanto spazio fuori di quell'alta finestra angusta! Guardò la facciata della casa, esposta lassù ai venti, alle piogge, malinconica nell'umidore lunare; guardò in basso la viuzza nera, deserta, vegliata da un solo fanale piagnucoloso; i tetti delle povere case raccolte nel sonno; e si sentì crescere l'angoscia. Rimase attonito, quasi con l'anima sospesa, a mirare; e come, dopo un violento uragano, lievi nuvole vagano indecise, pensieri alieni, memorie smarrite, impressioni lontane gli s'affacciarono allo spirito, senza precisarsi tuttavia. Pensò che lì, in quella straducola angusta, quand'egli era bambino, proprio sotto a quel fanale dal fioco lume vacillante, una notte, era stato ucciso un uomo a tradimento; che poi una serva gli aveva detto che lo spirito di quell'ucciso era stato veduto da tanti; e lui ne aveva avuto una gran paura e per parecchio tempo non aveva più potuto affacciarsi di sera a guardare in quella via… Ora la casa paterna, lasciata da circa due anni, lo riprendeva, con tutte le reminiscenze, con l'oppressione antica. Egli era libero di nuovo, come ritornato scapolo. Avrebbe dormito solo, quella notte, nella cameretta nuda, nel lettuccio di prima: solo! La sua casa maritale, coi ricchi mobili nuovi, era rimasta vuota, buja… le finestre erano rimaste aperte… e quella luna, calante tra le brume sul mare lontano, doveva vedersi certo anche dalla sua camera da letto… Il suo letto a due… tra i cortinaggi di seta rosea… ah! Strizzò gli occhi e serrò le pugna. E domani? che sarebbe stato domani, quando tutto il paese avrebbe saputo ch'egli aveva scacciato di casa la moglie infedele?

      Là, col capo immerso nel vasto silenzio malinconico della notte punto qua e là e vibrante da stridi rapidi di pipistrelli invisibili, con le pugna ancora serrate, Rocco gemette, esasperato:

      – Che debbo fare? che debbo fare?

      – Scendi giù dall'Inglese – insinuò piano e quieto Niccolino, che se ne stava ancor presso la tavola, con gli occhi fissi su la tovaglia.

      Rocco stolzò alla voce, e si voltò, stordito da quel consiglio e dal vedere il fratello ancora lì, impassibile, sotto la lampada.

      – Da Bill? – gli domandò, accigliato. – E perché?

      – Io, nel tuo caso, farei un duello, – disse con aria semplice e convinta Niccolino, raccogliendo nel cavo della mano tutte le pallottoline arrotondate e andando a buttarle dalla finestra.

      – Un duello? – ripeté Rocco, e stette un poco a pensare, impuntato; poi proruppe: – Ma sì, ma sì, ma sì, dici bene! Come non ci avevo pensato? Sicuro, il duello!

      Dalla chiesa vicina giunsero i rintocchi lenti della mezzanotte.

      – Mezzanotte.

      – L'Inglese sarà sveglio.

      Rocco raccolse il cappello ammaccato dal pavimento.

      – Ci vado!

      II

      Per la scala, al bujo, Rocco Pentàgora rimase un tratto perplesso, se picchiare all'uscio dell'Inglese o a quello più giù d'un altro pigionante, il professor Blandino.

      Antonio Pentàgora aveva edificato quella sua casa, che pareva un torrione, a piano a piano. Al quarto, per il momento, s'era arrestato. Ma, o che la casa rimanesse veramente fuori mano, o che nessuno volesse aver da fare col proprietario, il fatto era che al Pentàgora non riusciva mai d'appigionarne un quartierino.

      Il primo piano era vuoto da tant'anni; del secondo una sola camera era occupata da quel professor Blandino, affidato alle cure della signora Popònica; del terzo, parimenti una sola, dall'inglese Mr H.W. Madden, detto Bill.

      Tutte le altre, qua e là, dai topi. Il portinajo aveva la dignitosa gravità d'un notajo; ma, cinque lire al mese; per cui non salutava mai nessuno.

      Luca Blandino, professore di filosofia al Liceo, su i cinquant'anni, alto, magro, calvissimo, ma in compenso enormemente barbuto, era un uomo singolare, ben noto in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto. Aggiogato per necessità e con triste rassegnazione all'insegnamento, assorto di continuo nelle sue meditazioni, non si curava più di nulla né di nessuno. Tuttavia, chi avesse saputo all'improvviso impressionarlo, così da farlo per poco discendere dalla sfera di quei suoi nuvolosi pensieri, avrebbe potuto tirarlo dalla sua e farsene ajuto prezioso e disinteressato. Rocco lo sapeva.

      Uomo non meno singolare era il Madden, professore anche lui, ma privato, di lingue straniere. Dava a pochissimo prezzo lezioni d'inglese, di tedesco, di francese, bistrattando l'italiano. Piazza internazionale, dunque, quella sua fronte smisurata. I capelli aurei, finissimi, pareva gli si fossero allontanati dai confini della fronte e dalle tempie per paura del naso adunco, robusto; ma in cerca di loro, dalla punta delle sopracciglia serpeggiavano sù sù, come per andarsi a nascondere, due vene sempre gonfie. Sotto le sopracciglia s'appuntavano gli occhietti grigio-azzurri, a volta astuti, a volta dolenti, come gravati dalla fronte. Sotto il naso, i baffetti color di fieno, tagliati rigorosamente intorno al labbro. Nonostante la fronte monumentale, la natura aveva voluto dotare il corpo del signor Madden d'una certa agilità scimmiesca; e il signor Madden subito aveva tratto partito anche di questa dote: nelle ore d'ozio, dava lezioni di scherma; ma così, senz'alcuna pretesa, badiamo!

      Probabilmente neppur lui, povero Bill, avrebbe saputo ridire come mai dalla nativa Irlanda si fosse ridotto in un paese di Sicilia. Nessuna lettera mai dalla patria! Era proprio solo, con la miseria dietro, nel passato, e la miseria davanti, nell'avvenire. Così abbandonato alla discrezione della sorte, pure non s'avviliva. In verità, il signor Madden aveva in mente, per sua ventura, più vocaboli che pensieri; e se li ripassava di continuo.

      Rocco – come Niccolino aveva supposto – lo trovò sveglio.

      Bill stava seduto su un vecchio, sgangherato canapè davanti a un tavolino, con la gran fronte illuminata da una lampada dal paralume rotto; senza scarpe, teneva una gamba accavalciata su l'altra e dava morsi da arrabbiato a un panino imbottito, guardando religiosamente una bottiglia sturata di pessima birra, che gli stava davanti.

      Ogni mattone, in quella camera, reclamava la scopa e una cassetta da sputare per il signor Madden; reclamavano le pareti e i pochi decrepiti mobili uno spolveraccio; reclamava il letticciuolo dai trespoli esposti le solide braccia d'una servotta, che lo rifacessero almeno una volta la settimana; reclamavano gli abiti del signor Madden non una spazzola, ma una brusca, piuttosto, da cavallo.

      Le vetrate dell'unica finestra erano aperte; le persiane, accostate. Le scarpe del signor Madden, una qua, una là, in mezzo alla camera.

      – Oh Rocco! – esclamò con la barbara pronunzia, nella quale gargarizzava, schiacciava, sputava vocali e consonanti, con sillabazione spezzata, come se parlasse con una patata calda in bocca.

      – Scusa, Bill, se vengo così tardi, – disse Rocco, con faccia cadaverica. – Ho bisogno di te.

      Bill ripeteva quasi sempre le ultime parole del suo interlocutore, come per agganciarvi la risposta:

      – Di me? Un momento. È mio dovere di rimettere prima le scarpe.

      E guardò, sconcertato, la ferita su la fronte dell'amico.

      – Ho avuto una lite.

      – Non capisco.

      – Una lite! – urlò Rocco, additando la fronte.

      – Ah, una lite, benissimo: a strife, der Streite, une mêlée, yes, capito benissimo. Si dice lite in italiano? Li-te, benissimo. Che cosa posso io fare?

      – Ho bisogno di te.

      – (Li-te). Non capisco.

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