L'esclusa. Луиджи Пиранделло
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– Professore… non m'abbandoni, per carità! Conto su lei!
– Domani, domani, – ripeté il Blandino. – Povero Roccuccio… la vita, eh? che miseria… Buona notte, figliuolo mio, buona notte, buona notte…
E Rocco sentì chiudersi dietro le spalle la porta, piano piano, e restò al bujo, sul pianerottolo, in mezzo alla scala silenziosa, smarrito. Nessuno voleva più saperne, di lui?
Sedette, come un bambino abbandonato, su i primi scalini della branca, presso la ringhiera, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. Il bujo, il silenzio, la positura stessa gli strinsero il cuore, gli fecero cader l'animo in un avvilimento profondo. Contrasse il volto e si mise a piangere e a lamentarsi sommessamente:
– Ah, mamma mia! mamma mia!
Pianse e pianse. Poi si cercò in tasca e ne trasse una lettera tutta brancicata. Accese un fiammifero e si provò a leggere; ma avvertì su la mano il contatto di qualcosa umida, lievissima, un po' vischiosa; e alzò il fiammifero per veder che fosse. Un filo di ragno, lunghissimo, che pendeva dall'alto della scala. Si distrasse a guardarlo, e non avvertì al fiammifero che gli si consumava intanto tra le dita; si scottò e, al bujo, gridò più volte:
– Maledetto! maledetto! maledetto!
Accese un altro fiammifero e si mise a leggere la lettera, ch'era scritta di minutissimo carattere, su una carta cinerea, ruvida in vista. Lesse macchinalmente le prime parole: «Ti scrivo da tre mesi (son già tre mesi) e ancora…». Saltò alcuni righi; fissò lo sguardo su un «: Quando?» sottolineato, poi buttò il fiammifero e restò con la lettera in mano e gli occhi sbarrati nel bujo.
Rivedeva la scena.
Aveva sforzato l'uscio con un violento spintone, gridando: «La lettera! dammi la lettera!». Al fracasso, Marta s'era fatta riparo dello sportello aperto del grande armadio a muro presso al quale leggeva. Egli aveva tratto in avanti con forza lo sportello e le aveva attanagliato i polsi. «Che lettera? Che lettera?» aveva ella balbettato, guardandolo atterrita negli occhi. Ma la carta, spiegazzata nell'improvviso terrore e impigliata tra le vesti e un palchetto dell'armadio era caduta come una foglia secca sul pavimento. Ed egli, nel lanciarsi a raccoglierla, s'era ferito alla fronte, urtando contro lo sportello aperto dell'armadio. Accecato dall'ira, dal dolore, aveva allora inveito contro di lei, senza riguardo alla maternità incipiente, e la aveva senz'altro cacciata di casa a urtoni, a percosse.
Poi, l'altra scena, col suocero. Era andato a mostrargli quella e le altre lettere dell'Alvignani rinvenute nell'armadio. Non c'era colpa? «E in che consiste allora la colpa per lei?» gli aveva domandato. «Scusi, forse perché è sua figlia?». Francesco Ajala gli era saltato addosso come una tigre. «Mia figlia? che dici? mia figlia una sgualdrina?» Poi s'era ammansato. «Bada, Rocco, bada a quello che fai… Vedi di che si tratta? Lettere… E tu rovini due case: la tua e la mia. Forse puoi ancora perdonare…» «Ah sì? e la perdonerebbe lei, al mio posto, se invece d'esser padre fosse marito?» E Francesco Ajala non aveva saputo rispondergli.
«Lui no, e io sì? Oh bella!» pensò Rocco, nel silenzio della scala.
«È finita! ora è finita!»
Si levò in piedi e, accendendo un altro fiammifero, si mise a risalire la scala, con gli occhi alla lettera che aveva ancora in mano.
«Che vorrà dire?…» Domandava a se stesso, cercando di decifrare il motto dell'Alvignani inciso in rosso in capo al foglio:
NIHIL – MIHI–CONSCIO.
III
L'ombra, poi man mano il bujo avevano invaso la stanza, ove la madre aveva accolto Marta scacciata dal marito. Nel bujo, la suppellettile di vetro su la tavola, già apparecchiata per la cena prima dell'arrivo di Marta, ritraeva dalla strada qualche filo di luce.
La signora Agata Ajala, altissima di statura e corpulenta, ma con una dolcezza nello sguardo e nella voce che pareva volesse subito attenuare, in chi la guardava o le parlava, l'impressione sgradevole che il suo corpo doveva per forza destare; rientrando dalla saletta dove poc'anzi la avevano chiamata, intravide all'improvviso lume, nell'aprir l'uscio, le due figliuole sul canapè di fronte: Marta con un fazzoletto sul volto abbandonata su la spalliera, e Maria che le teneva una mano, china su lei.
– Vuol partire… – annunziò, quasi istupidita dall'inattesa sciagura.
– Mamma, ha saputo… ha saputo, – disse allora Marta scrollando il capo e torcendosi le mani. – Ha saputo e non vuol più tornare a casa. Non perdona, lo so. Va' tu a trovarlo; digli che torni, mamma; io me ne vado. Lo so, non mi crede più degna di stare in casa sua. Digli che vi sono venuta… così, perché non sapevo dove andare. Me ne vado. Non sapevo dove andare.
Due care braccia, tese in un impeto di commozione, la attirarono a sé.
La madre disse:
– Dove volevi andare? Dove puoi andare? Rimani, rimani qua, con Maria. Andrò a parlargli…
Si tirò sul capo e si avvolse attorno al collo uno scialletto nero di lana, e uscì.
La larga strada del sobborgo, molto animata durante il giorno, restava poi, la sera, silenziosa e sola come una contrada di sogno, con le alte case in fila, su le cui finestre la luna rifletteva un verde lume qua e là. Un greve, interrotto sfilar di nubi fumolente velava a quando a quando la pallida e fresca serenità lunare e gettava ombre cupe su la strada umida.
Oh San Francesco! invocò la madre, alzando una mano verso la chiesa in fondo alla strada.
Lì, a pochi passi dalla casa, su la stessa strada suburbana, sorgeva la vasta concerìa, di cui Francesco Ajala era proprietario. Appressandosi, ella scorse il marito a un balcone del primo piano; tremò al pensiero d'affrontarne l'ira e il dolore, sapendo purtroppo a quali terribili eccessi potevano trascinarlo. Era alto più di lei, e il corpo gigantesco si disegnava in ombra nel vano luminoso del balcone.
Due erano le sciagure, non una sola. E questa del padre assai più grave di quella di Marta. Perché, a ragionare con un po' di calma e aspettando qualche giorno, la sciagura della figlia forse si sarebbe potuta riparare. Ma col padre non si ragionava.
La signora Ajala già da un pezzo aveva imparato a misurare ogni dispiacere, ogni dolore, non per se stesso, che le sarebbe parso poco o niente, ma in considerazione delle furie che avrebbe suscitato nel marito. Se talvolta, buon Dio, per il guasto o la rottura di qualche oggetto anche di poco valore, ma di cui difficilmente si sarebbe potuto trovare il compagno in paese, tutta la casa piombava nel lutto, nella costernazione più grave… E i vicini, gli estranei, risapendolo, ne ridevano; e avevano ragione. Per una boccettina? per un quadrettino? per un ninnolo qualunque? Ma bisognava vedere che cosa importasse per lui, per il marito, quel guasto o quella rottura. Una mancanza di riguardo, non all'oggetto che valeva poco o nulla, ma a lui, a lui che l'aveva comperato. Avaro? Nemmen per sogno! Era capace, per quel ninnolo di pochi bajocchi, di mandare in frantumi mezza casa.
In tanti anni di matrimonio, ella era riuscita con le dolci maniere ad ammansarlo un po', perdonandogli anche, spesso, torti non lievi, senza mai venir meno tuttavia alla propria dignità e pur senza fargli pesare il perdono. Ma un nonnulla bastava di tanto in tanto a farlo scattare selvaggiamente. Forse, subito dopo, se ne pentiva; non voleva, però, o non sapeva confessarlo: gli sarebbe parso d'avvilirsi o di darla vinta: desiderava che gli altri lo indovinassero; ma poiché nessuno, nello sbigottimento, ardiva nemmeno di fiatare, egli