L'esclusa. Луиджи Пиранделло
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L'irrompere del marito nella camera, mentr'ella leggeva la lettera, nella quale per la prima volta l'Al-vignani s'era arrischiato a darle del tu, la scena violenta che n'era seguita, l'aveva stupita e spaventata tanto più, in quanto che si sentiva, leggendola, affatto calma e indifferente. Innocente, diceva lei.
A ogni donna onesta, che non fosse brutta, poteva capitar facilmente di vedersi guardata con strana insistenza da qualcuno; e se colta all'improvviso, turbarsene; se prevenuta della propria bellezza, compiacersene. Ora a nessuna donna onesta, nel segreto della propria coscienza, sarebbe sembrato di commettere peccato in quell'istante di turbamento o di compiacenza, carezzando col pensiero quel desiderio suscitato, immaginando in uno sprazzo fuggevole un'altra vita, un altro amore… Poi la vi-sta delle cose attorno richiamava, ricomponeva la coscienza del proprio stato, dei proprii doveri; e tutto finiva lì… Momenti! Non si sentiva forse ciascuno guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un'anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Poi quei guizzi si spengono, e ritorna l'ombra uggiosa o la calma luce consueta.
Senza volerlo, senza sapere precisamente in qual modo, si era trovata presa, avviluppata in un intrico.
Dalla paurosa sorpresa nel vedersi buttare dall'Alvignani la prima lettera e dalla incertezza tormentosa sul partito da prendere per impedire che colui seguitasse, non sapeva più come, ella – onesta, one-sta, figlia di gente onesta – ecco qua, era potuta man mano arrivare fino a quel punto, senza alcun so-spetto. Ah, quante imprudenze aveva commesso quell'uomo avanti che le buttasse la prima lettera e dopo! Ora le notava; ora se ne sentiva offesa.
Quelle tendine delle finestre dirimpetto non avevano requie: sollevate da una parte o dall'altra, poi d'un tratto abbassate; e certe subitanee scomparse dalla finestra, e certi segni del capo e delle mani… E aveva potuto ridere, allora, ridere di quell'uomo già maturo, rispettabile, che si rendeva davanti a lei così ridicolo, imbambolito…
Ma a qual mezzo avrebbe dovuto appigliarsi per fare che colui smettesse dal tormentarla? Compromettere il padre? il marito?
N'era esasperata, avvilita; e pur non di meno gli occhi le andavano sempre lì, alle finestre di-rimpetto, involontariamente, quasi per forza di legamento, lì… Usciva sovente, per sottrarsi a quella tentazione puerile; si recava per intere giornate alla casa paterna; e qua costringeva Maria a sonare, a sonar sempre la stessa cosa, una vecchia e mesta barcarola.
– Marta, ebbene?
E lei, sprofondata sul divano, rispondeva con voce flebile e gli occhi invagati:
– Sono lontano… lontano…
Maria rideva, e a Marta risonavano ora negli orecchi le risate schiette della sorella. E seguitava a ri-cordare, a rivedere col pensiero. Nel salotto entrava la madre, che le domandava del marito.
– Al solito… – le rispondeva lei.
– Sei contenta?
– Sì.
E mentiva. Non che avesse da ridire su la condotta di lui; ma ecco, le rimaneva in fondo all'anima un sentimento ostile, non ben definito; e non da ora: fin dal primo giorno della promessa di matrimonio, allor che a lei, ragazza di sedici anni appena, tolta dal collegio, agli studii seguiti con tanto fervore, Rocco Pentàgora era stato presentato come promesso sposo. Era un sentimento di vaga oppressione ricacciato dentro e soffocato dalle savie riflessioni dei genitori, che nel Pentàgora avevano veduto un partito conveniente, un buon giovine, ricco… Sì, sì; e lei aveva ripetuto come sue queste savie considerazioni della madre e del padre alle compagne di collegio dalle quali aveva voluto prendere commiato; come se da bambina tutt'a un tratto fosse diventata vecchia, provata e sperimentata nel mondo.
Qua e là le pareti della cameretta serbavano tuttavia alcune date scritte da lei: ricordi, certo, di anti-chi trionfi di scuola o d'ingenue feste tra amiche o di famiglia. E su quelle pareti e su tutti quegli og-getti umili semplici e cari pareva che il tempo si fosse addormentato e che ogni cosa là dentro ser-basse l'odore del suo respiro. E Marta col pensiero rifrugava nella sua vita di fanciulla.
Quante volte non aveva udito, standosene con gli occhi intenti e lo spirito vagante, quel crepitìo del-le prime piogge su i vetri delle finestre; quante volte non aveva veduto quella luce scialba, malinco-nica, nella cameretta raccolta, con la sensazione dolce nell'anima dei prossimi freddi, al declinare dell'autunno nuvoloso, dei brividori che fan le notti invernali, innanzi al mattutino?
Maria guardava la sorella, stupita di quella calma, e quasi non credeva agli occhi suoi, offesa nel cuore dall'indifferenza con cui Marta pareva si fosse ora acchetata alla sciagura, come se la tempesta non le fosse passata or ora sul capo. "Eppure non ignora" pensava Maria, "in quale stato s'è ridotto il babbo per causa sua!". E quasi piangeva dalla pena di non veder la sorella come avrebbe voluto, umile cioè, desolata, vinta nel suo cordoglio e inconsolabile, come nei primi giorni dopo il ritorno in casa.
Marta infatti non piangeva più. Dopo aver confessato tutto alla madre, tutto, fin nei minimi partico-lari, nei più intimi e segreti sentimenti, aveva sperato che il padre almeno, se non più il marito, le rendesse giustizia, e si rimovesse da quel proposito di non uscire più di casa, ch'era per lei, di fronte a tutto il paese, una condanna anche più grave di quella che il marito con sì poca ragione aveva volu-to infliggerle, scacciandola dal tetto coniugale.
Così egli, suo padre, confermava l'accusa del marito e la infamava irrimediabilmente. Come non lo intendeva?
Aveva domandato con ansia alla madre se avesse riferito al padre la confessione, e la madre le aveva detto di sì.
Ebbene? Irremovibile?
Da quel momento, non aveva più versato una lagrima. Si era sentita tutta rimescolare, e la rabbia raf-frenata s'era irrigidita in lei in un disprezzo freddo, in quella maschera d'indifferenza dispettosa di fronte all'afflizione della madre e della sorella, le quali, anziché condannare il padre per la sua cieca, testarda ingiustizia, si mostravano costernate per lui, per il male che certo gliene sarebbe venuto alla salute, come se n'avesse colpa lei.
E ora Marta domandava apposta a Maria notizie di qualche amica che prima veniva a visitare la ma-dre; e, poiché Maria rispondeva impacciata, ella, sorridendo stranamente, esclamava:
– Adesso, si sa, nessuno vorrà più venire in casa nostra…
Tutto, dunque, doveva finire così? Si doveva rimanere come in prigione, in quell'afa, in quel bujo, in quel lutto, quasi che il mondo fosse crollato?
La famiglia s'era ritirata nelle stanze più remote da quella ove Francesco Ajala se ne stava rinchiuso. Nessuna voce, nessun rumore giungevano agli orecchi di lui, che, seduto su la poltrona a piè del let-to, guardava la soglia illuminata sotto l'uscio nero, spiava il lieve, cauto scalpiccìo su l'assito della stanza attigua e si sforzava d'indovinare chi vi passasse in punta di piedi. Non LEI, certo: era Aga-ta… era Maria… era la serva…
– La concerìa, – volle un giorno rammentargli la moglie. – Vuoi che proprio tutto si perda così?
– Tutto! tutto! – le rispose egli. – Morremo di fame.
– E Maria? Non è figlia tua anche lei? Che colpa ha la povera Maria?
– E