Il Nostro Sacro Onore. Джек Марс
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“Luke, sei fuori di testa?”
Gli altri uomini, e tutti i servizi segreti, se n’erano andati.
“Non manderei il mio peggior nemico in questa missione. Dovresti paracadutarti in Iran, e poi vagare per il paese con gente che cerca di assassinarti, finché non trovi delle armi nucleari?”
Sorrise. “Be’, spero che la cosa verrà pensata un pochino meglio di così.”
“Ti farai uccidere.”
Allora lui si alzò, e andò da lei. Cercò di abbracciarla. Lei rimase rigida per un attimo, poi si sciolse nel suo abbraccio.
“Lo sai quant’è ridicolo che la presidente degli Stati Uniti si preoccupi esageratamente per la vita di un agente delle operazioni speciali, che fa esattamente questa roba per tutta la sua vita adulta?”
Lei scosse la testa. “Non mi interessa. È diverso. Non posso autorizzare una missione in cui potresti rimanere ucciso. È follia.”
Abbassò lo sguardo su di lei. “Mi stai dicendo che per stare con te devo mollare il lavoro?”
“No. Sei a capo della tua agenzia. Non devi accettarla. Non devi presentarti come volontario. Manda qualcun altro.”
“Vuoi che mandi qualcun altro anche se pensi che sia una missione suicida?”
Annuì. “Esatto. Manda qualcuno che non amo.”
“Susan, non posso.”
Allora lei si voltò dall’altra parte, e d’un tratto presero a scorrere lacrime di infelicità. “Lo so. Questo lo so. Ma per l’amor di Dio, ti prego di non morirci, laggiù.”
CAPITOLO DIECI
16:45 ora di Israele (9:45 ora della costa orientale)
Covo di Sansone – nelle profondità della terra
Gerusalemme, Israele
“Falli stare zitti.”
Yonatan Stern, il primo ministro di Israele, sedeva sulla sua solita sedia a capotavola nel centro di comando per le crisi israeliano, il mento sulla mano. La stanza era una cavernosa cupola a forma di uovo. Tutt’intorno a lui, il suo esercito e i suoi consiglieri politici si trovavano nel caos, urlavano, recriminavano, si puntavano il dito addosso gli uni con gli altri.
Come si era arrivati a questo? pareva essere la domanda prevalente. E la risposta alla quale era giunta la maggior parte di quelle brillanti menti strategiche era, È colpa di qualcun altro.
“David!” disse fissando il suo capo di gabinetto, un robusto ex commando suo braccio destro dai giorni dell’esercito. David si girò a guardarlo, grossi occhi scuri malevoli, denti che si mordevano l’interno della guancia, come faceva quando era nervoso o distratto. Un tempo quell’uomo avrebbe ucciso nemici a mani nude, eppure in qualche modo pareva scusarsene, nel mentre. Pareva scusarsi anche adesso.
“Per favore,” disse Yonatan. “Riporta all’ordine la stanza.”
David scrollò le spalle. Andò al tavolo da conferenze e mandò a schiantare un pugno gigante sulla sua superficie.
BUM!
Non disse una parola, ma riportò di nuovo giù il pugno.
BUM!
E ancora. E ancora. E ancora. Ogni volta che il pugno atterrava, la stanza si faceva un po’ più silenziosa. Alla fine tutti gli uomini presenti si alzarono per guardare David Cohn, l’organizzatore e gendarme di Yonatan Stern, un uomo che nessuno di loro rispettava intellettualmente, ma anche che nessuno di loro avrebbe mai osato intralciare.
Sollevò il pugno un’ultima volta, ma adesso la stanza era silenziosa. Si fermò a mezz’aria, come un martello. Poi fluttuò lentamente di nuovo sul fianco.
“Grazie, David,” disse Yonatan. Guardò gli altri uomini presenti. “Signori, vorrei cominciare questa riunione. Quindi, per favore, prendete posto e ammaliatemi con il vostro acume.”
Si guardò intorno. C’era Efraim Shavitz, sempre giovanile, dimostrava molto meno dei suoi anni. La gente lo chiamava il Modello. Era il direttore del Mossad. Indossava un costoso completo su misura e delle scarpe italiane di pelle nera lucidissime. Pareva che si stesse recando a un nightclub di Tel Aviv, e non che stesse attualmente supervisionando la distruzione del suo stesso popolo. In una stanza piena di sciatti intellettuali e uomini dell’esercito di un’età, Shavitz il dandy sembrava una specie di uccello esotico.
Yonatan scosse la testa. Shavitz era uno degli uomini del suo predecessore. Yonatan se lo teneva lì perché gli era stato ben raccomandato e sembrava sapere quel che faceva. Fino a oggi.
“Efraim, le tue stime, per cortesia.”
Shavitz annuì. “Certamente.”
Prese un telecomando dalla tasca della giacca e si voltò verso il grande schermo alla fine del tavolo. Istantaneamente apparve il video di un lancio missilistico da una piattaforma mobile verdastra.
“Il Fateh-200 è arrivato in Libano. Sospettavamo che potesse essere il caso…”
“Quando, lo sospettavate?” disse Yonatan.
Shavitz lo guardò. “Prego?”
“Quando sospettavate che Hezbollah avesse ottenuto il sistema d’arma Fateh-200? Quando? Io un rapporto del genere non l’ho mai letto, né qualcuno mi ha mai menzionato l’arrivo di un rapporto del genere. Ne ho sentito parlare per la prima volta quando dei missili a lungo raggio altamente esplosivi hanno cominciato ad abbattersi su edifici residenziali di Tel Aviv.”
Ci fu un lungo silenzio trascinato. Gli altri uomini presenti osservavano, alcuni Yonatan Stern, altri Efraim Shavitz, alcuni la tavola che avevano davanti.
“In ogni caso, ce li hanno,” disse Shavitz.
Yonatan annuì. “Sì, ce li hanno. Ora, a proposito dell’Iran… loro che cos’hanno?”
Shavitz indicò Yonatan. “Non confonda l’acquisizione da parte di Hezbollah di potenti armi convenzionali con la minaccia nucleare iraniana, Yonatan. Non lo faccia. Le abbiamo detto che gli iraniani stavano lavorando su missili nucleari. Conosciamo le ubicazioni sospette. Conosciamo le persone coinvolte. Abbiamo un’idea del numero di testate. Viene avvertito di questi pericoli da anni. Abbiamo perso molti buoni uomini per ottenere queste informazioni. Che lei non abbia agito non è colpa mia, né del Mossad.”
“Ci sono considerazioni politiche,” disse Yonatan.
Shavitz scosse il capo. “Questo non è il mio dipartimento. Ora, crediamo che gli iraniani possano avere almeno quattordici testate, nascoste in tre luoghi, e probabilmente ben sottoterra. Potrebbero non averne per niente. Potrebbe essere una menzogna. Ma non più di quattordici.”