Uno, nessuno e centomila. Луиджи Пиранделло

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Uno, nessuno e centomila - Луиджи Пиранделло

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e ogni volontà.

      Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.

      Dirò per ora di quelle piccole che cominciai a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie, nell'attesa smaniosa ch'ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo finalmente per un buon pezzo.

      Non volevo già come un commediante studiar le mie mosse, compormi la faccia all'espressione dei varii sentimenti e moti dell'animo; al contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti, nelle subitanee alterazioni del volto per ogni moto dell'animo; per un'improvvisa maraviglia, ad esempio (e sbalzavo per ogni nonnulla le sopracciglia fino all'attaccatura dei capelli e spalancavo gli occhi e la bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo tirasse); per un profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia moglie, e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m'avesse schiaffeggiato, e arricciavo il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).

      Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se vere, non avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto ch'io le vedevo; in secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso erano tante e diversissime, e imprevedibili anche le espressioni, senza fine variabili anche secondo i momenti e le condizioni del mio animo; e cosí per tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E infine, anche ammesso che per una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato cordoglio, per una sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle espressioni, esse erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri. L'espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per uno che l'avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo disposto a riderne, e cosí via.

      Ah! tanto bel senno avevo ancora per intendere tutto questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta inattuabilità di quel mio folle proposito la conseguenza naturale di rinunciare all'impresa disperata e starmi contento a vivere per me, senza vedermi e senza darmi pensiero degli altri.

      L'idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un "mio" dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest'idea non mi diede piú requie.

      Come sopportare in me quest'estraneo? quest'estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?

      – Sai che ti dico, Gengè? Sono passati altri quattro giorni. Non c'è piú dubbio: Anna Rosa dev'esser malata. Andrò io a vederla.

      – Dida mia, che fai? Ma ti pare! Con questo tempaccio? Manda Diego; manda Nina a domandar notizie. Vuoi rischiare di prendere un malanno? Non voglio, non voglio assolutamente.

      Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?

      Dida, mia moglie, si piantò il cappellino in capo. Poi mi porse la pelliccia perché gliela reggessi.

      Gongolai. Ma Dida scorse nello specchio il mio sorriso.

      – Ah, ridi?

      – Cara, mi vedo obbedito cosí...

      E allora la pregai che, almeno, non si trattenesse tanto dalla sua amichetta, se davvero era ammalata di gola:

      – Un quarto d'ora, non piú. Te ne scongiuro.

      M'assicurai cosí che fino a sera non sarebbe rincasata.

      Appena uscita, mi girai dalla gioja su un calcagno, stropicciandomi le mani.

      «Finalmente!»

      Prima volli ricompormi, aspettare che mi scomparisse dal volto ogni traccia d'ansia e di gioja e che, dentro, mi s'arrestasse ogni moto di sentimento e di pensiero, cosí che potessi condurre davanti allo specchio il mio corpo come estraneo a me e, come tale, pormelo davanti.

      – Su, – dissi, – andiamo!

      Andai, con gli occhi chiusi, le mani avanti, a tentoni. Quando toccai la lastra dell'armadio, ristetti ad aspettare, ancora con gli occhi chiusi, la piú assoluta calma interiore, la piú assoluta indifferenza.

      Ma una maledetta voce mi diceva dentro, che era là anche lui, l'estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli occhi chiusi.

      C'era, e io non lo vedevo.

      Non mi vedeva neanche lui, perché aveva, come me, gli occhi chiusi. Ma in attesa di che, lui? Di vedermi? No. Egli poteva esser veduto; non vedermi. Era per me quel che io ero per gli altri, che potevo esser veduto e non vedermi. Aprendo gli occhi però, lo avrei veduto cosí come un altro?

      Qui era il punto.

      M'era accaduto tante volte d'infrontar gli occhi per caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello specchio non mi vedevo ed ero veduto; cosí l'altro, non si vedeva, ma vedeva il mio viso e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anch'io nello specchio, avrei forse potuto esser visto ancora dall'altro, ma io no, non avrei piú potuto vederlo. Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio.

      Stando a pensare cosí, sempre con gli occhi chiusi, mi domandai:

      «È diverso ora il mio caso, o è lo stesso? Finché tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che, aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È possibile? Subito com'io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante! Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d'essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: quell'altro che tutti vedono e io no. Sú, dunque, calma, arresto d'ogni vita e attenzione!»

      Aprii gli occhi. Che vidi?

      Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.

      M'assalì una fierissima stizza e mi sorse la tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di smorzare l'acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine smoriva e quasi s'allontanava da me; ma smorivo anch'io di qua e quasi cascavo; e sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d'impedire che mi sentissi anch'io tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me li vedevo di fronte, ma li sentivo anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo piú. Ahimè, era proprio cosí: io potevo vedermeli, non

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