Uno, nessuno e centomila. Луиджи Пиранделло
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« Ma come mai non ti venne in mente, povero Moscarda, che a tutti gli altri avveniva come a te, di non vedersi vivere; e che se tu non eri per gli altri quale finora t'eri creduto, allo stesso modo gli altri potevano non essere quali tu li vedevi, ecc. ecc.? »
Rispondo:
Mi venne in mente. Ma scusate, è proprio vero che sia venuto in mente anche a voi?
Ho voluto supporlo, ma non ci credo. Io credo anzi che se in realtà un tal pensiero vi venisse in mente e vi si radicasse come si radicò in me, ciascuno di voi commetterebbe le stesse pazzie che commisi io.
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell'altrui giudizio non v'importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.
Che se poi qualcuno vi fa notare che il naso vi pende un pochino verso destra... no? che jeri avete detto una bugia... nemmeno? piccola piccola, via, senza conseguenze... Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben poco. Ritenete al piú al piú, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. Se vi preme, cercherete magari di raddrizzare quel giudizio, dando schiarimenti, spiegazioni; se non vi preme, lascerete correre; scrollerete le spalle esclamando: "Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta."
Non è cosí?
Signori miei, scusate. Poiché vi è venuta in bocca una cosí grossa parola, permettete ch'io vi faccia entrare in mente un magro magro pensiero. Questo: che la vostra coscienza, qua, non ci ha che vedere. Non vi dirò che non val nulla, se per voi è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch'io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c'è anche la vostra. Ma sí. Tanto diversa dalla mia.
Scusatemi se parlo un momento a modo dei filosofi. Ma è forse la coscienza qualcosa d'assoluto che possa bastare a se stessa? Se fossimo soli, forse sí. Ma allora, belli miei, non ci sarebbe coscienza. Purtroppo, ci sono io, e ci siete voi. Purtroppo.
E che vuol dunque dire che avete la vostra coscienza e che vi basta? Che gli altri possono pensare di voi e giudicarvi come piace a loro, cioè ingiustamente, ché voi siete intanto sicuro e confortato di non aver fatto male?
Oh di grazia, e se non sono gli altri, chi ve la dà codesta sicurezza? codesto conforto chi ve lo dà?
Voi stesso? E come?
Ah, io lo so, come: ostinandovi a credere che se gli altri fossero stati al vostro posto e fosse loro capitato il vostro stesso caso, tutti avrebbero agito come voi, né piú né meno.
Bravo! Ma su che lo affermate?
Eh, so anche questo: su certi principii astratti e generali, in cui, astrattamente e generalmente, vuol dire fuori dei casi concreti e particolari della vita, si può essere tutti d'accordo (costa poco).
Ma come va che tutti intanto vi condannano o non vi approvano o anche vi deridono? È chiaro che non sanno riconoscere, come voi, quei principii generali nel caso particolare che v'è capitato, e se stessi nell'azione che avete commessa.
O a che vi basta dunque la coscienza? A sentirvi solo? No, perdio. La solitudine vi spaventa. E che fate allora? V'immaginate tante teste. Tutte come la vostra. Tante teste che sono anzi la vostra stessa. Le quali a un dato cenno, tirate da voi come per un filo invisibile, vi dicono sí e no, e no e sí; come volete voi. E questo vi conforta e vi fa sicuri.
Andate là che è un giuoco magnifico, codesto della vostra coscienza che vi basta.
II. E allora?
Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.
Ci vivete dentro; ci camminate fuori, sicuri. La vedete, la toccate; e dentro anche, se vi piace, ci fumate un sigaro (la pipa? la pipa), e beatamente state a guardare le spire di fumo a poco a poco vanire nell'aria. Senza il minimo sospetto che tutta la realtà che vi sta attorno non ha per gli altri maggiore consistenza di quel fumo.
Dite di no? Guardate. Io abitavo con mia moglie la casa che mio padre s'era fatta costruire dopo la morte immatura di mia madre, per levarsi da quella dov'era vissuto con lei, piena di cocentissimi ricordi. Ero allora ragazzo, e soltanto piú tardi potei rendermi conto che proprio all'ultimo quella casa era stata lasciata da mio padre non finita e quasi aperta a chiunque volesse entrarvi.
Quell'arco di porta senza la porta che supera di tutta la cèntina da una parte e dall'altra i muri di cinta della vasta corte davanti, non finiti; con la soglia sotto distrutta e scortecciati agli spigoli i pilastri; mi fa ora pensare che mio padre lo lasciò cosí quasi in aria e vuoto, forse perché pensò che la casa, dopo la sua morte, doveva restare a me, vale a dire a tutti e a nessuno; e che le fosse inutile perciò il riparo d'una porta.
Finché visse mio padre, nessuno s'attentò a entrare in quella corte. Erano rimaste per terra tante pietre intagliate; e chi passava, vedendole, poté dapprima pensare che la fabbrica, per poco interrotta, sarebbe stata presto ripresa. Ma appena l'erba cominciò a crescere tra i ciottoli e lungo i muri, quelle pietre inutili sembrarono subito come crollate e vecchie. Col tempo, morto mio padre, divennero i sedili delle comari del vicinato, le quali, titubanti in principio, ora l'una ora l'altra, s'arrischiarono a varcare la soglia, come in cerca d'un posto riparato dove ci si potesse mettere seduti bene all'ombra e in silenzio; e poi, visto che nessuno diceva nulla, lasciarono alle loro galline la titubanza ancora per poco, e presero a considerare quella corte come loro, come loro l'acqua della cisterna che vi sorgeva in mezzo; e vi lavavano e vi stendevano i panni ad asciugare; e infine, col sole che abbarbagliava allegro da tutto quel bianco di lenzuoli e di camice svolazzanti dai cordini tesi, si scioglievano sulle spalle i capelli lustri d'olio per «cercarsi» in capo, come fanno le scimmie tra loro.
Non diedi mai a divedere né fastidio né piacere di quella loro invasione, benché m'irritasse specialmente la vista d'una vecchina sempre pigolante, dagli occhi risecchi e la gobba dietro ben segnata da un giubbino verde scolorito, e mi désse allo stomaco una lezzona grassa squarciata, con un'orrenda cioccia sempre fuori del busto e in grembo un bimbo sudicio dalla testa grossa schifosamente piena di croste di lattime tra la peluria rossiccia. Mia moglie aveva forse il suo tornaconto a lasciarle lì, perché se ne serviva a un bisogno, dando poi loro in compenso o gli avanzi di cucina o qualche abito smesso.
Acciottolata come la strada, questa corte è tutta in pendío. Mi rivedo ragazzo, uscito per le vacanze dal collegio, affacciato di sera tardi a uno dei balconi della casa allora nuova. Che pena infinita mi dava il vasto biancore illividito di tutti quei ciottoli in pendío con quella grande cisterna in mezzo, misteriosamente sonora! La ruggine s'era quasi mangiata fin d'allora la vernice rossigna del gambo di ferro che in cima regge la carrucola dove scorre la fune della secchia; e come mi sembrava triste quello sbiadito color di vernice su quel gambo di ferro che ne pareva malato! Malato fors'anche per la malinconia dei cigolíi della carrucola quando il vento, di notte, moveva la fune; e su la corte deserta era la chiarità del cielo stellato ma velato, che in quella chiarità vana, di polvere, sembrava fissato là sopra, per sempre.
Dopo la morte di mio padre, Quantorzo, incaricato di badare ai miei affari,