La Tresca Perfetta. Блейк Пирс
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Si ricordò dei limiti personali che aveva stabilito quando Hannah si era trasferita a vivere da lei due mesi prima. Lei non era, e non avrebbe cercato di essere, un genitore della ragazza. Il suo lavoro era di fornire un ambiente sicuro per la sorellastra che non aveva mai conosciuto prima, in modo che si potesse riprendere dopo una serie di traumatici eventi. Il suo lavoro era di aiutare Hannah e reintegrarla in un mondo che sembrava essere fitto di pericoli. Il suo lavoro era di fungere da fonte di supporto e sicurezza. Jessie sapeva tutto questo, istintivamente e intellettivamente, eppure non poteva fare a meno di chiedersi perché diamine quella ragazzina non potesse mettere via un dannato piatto.
Mentre puliva e riordinava, si disse per la millesima volta che era tutto normale, che Hannah si stava comportando in modo da poter affermare il controllo sulla propria vita, cosa che ultimamente le era mancata. Doveva convincersi che non era niente di personale e che non sarebbe durato per sempre.
Continuò a ripetersi tutte queste cose. Ma dentro di sé non era sicura di credere a nessuna di esse. C’era una parte di lei che temeva che Hannah avesse dentro di sé una parte più oscura. E aveva paura che fosse irreversibile.
CAPITOLO DUE
Jessie stava diventando ansiosa.
Sapeva che la seduta di Hannah con la dottoressa Lemmon sarebbe finita da un momento all’altro. La ragazza sarebbe uscita dall’ufficio piangendo come era successo dopo l’ultimo incontro? O a muso duro come dopo i primi due?
Se qualcuno poteva avvicinarsi ad Hannah, Jessie doveva credere che fosse la dottoressa Janice Lemmon. Nonostante il suo aspetto senza pretese, con quella donna non si poteva scherzare. La sua struttura minuta, i capelli biondi permanentati e gli occhiali spessi facevano assomigliare la terapeuta comportamentale sessantenne più a una nonna che a uno dei più stimati esperti di comportamenti aberranti nella West Coast. Ma sotto quell’aspetto ordinario si trovava una donna così fortemente rispettata da far ancora di tanto in tanto da consulente per l’LAPD, l’FBI e altre organizzazioni di cui non parlava mai. Tra le altre cose, era anche la terapeuta di Jessie.
All’inizio Jessie si era preoccupata che dovendo trattare anche Hannah, avrebbe potuto trovarsi invischiata in un conflitto di interessi. Ma dopo qualche discussione, avevano concordato che c’erano pochi dottori qualificati per trattare una ragazza che aveva vissuto le esperienze di Hannah. E dato che la dottoressa Lemmon già conosceva profondamente parte della storia famigliare della giovane, era decisamente la scelta più logica.
Dopotutto era stata la dottoressa Lemmon ad aiutare Jessie a gestire la realtà che suo padre fosse il noto serial killer Xander Thurman. Era stata la dottoressa Lemmon ad accompagnarla attraverso gli incubi e l’ansia generati dall’aver assistito all’assassinio di sua madre per opera di suo padre, quando aveva solo sei anni. Era stata la dottoressa Lemmon a indurla ad aprirsi e a rivelare che era stata abbandonata da lui in un capanno in mezzo alla neve, destinata a morire, intrappolata per tre giorni accanto al cadavere in putrefazione della donna che chiamava mamma. Era stata la dottoressa Lemmon ad aiutarla a recuperare la sicurezza di poter affrontare suo padre quando era rientrato nella sua vita, ventitré anni più tardi, interessato a convertirla e trasformarla in un’assassina che operasse insieme a lui, o a ucciderla se non avesse accettato.
La donna era tra i terapeuti l’unica ovvia scelta, per poter lavorare con la sua sorellastra, che aveva in comune con lei lo stesso padre e incubi di simile brutalità. Solo pochi mesi prima, Thurman aveva rapito Hannah e i suoi genitori adottivi e aveva costretto la ragazza a guardare mentre li assassinava. Aveva quasi ucciso anche Jessie davanti ai suoi occhi. Solo la loro capacità di pensare rapidamente e il loro comune coraggio avevano permesso alle due donne di girare le carte in tavola e ucciderlo.
Ma anche dopo questo, il trauma di Hannah non era finito. Solo pochi mesi dopo la morte dei suoi genitori adottivi, un altro serial killer di nome Bolton Crutchfield, un seguace di suo padre con una certa fissa per Jessie, aveva ucciso i genitori affidatari della ragazza davanti a lei e l’aveva poi rapita. L’aveva tenuta per una settimana nello scantinato di una casa isolata, cercando di indottrinarla, di modellarla a suo piacimento insegnandole a uccidere come Thurman e lui stesso.
Lei era sopravvissuta anche a quell’orrore, salvata da Jessie e da un furbo doppio gioco ideato da lei stessa. Bolton Crutchfield era finito ucciso. E anche se non era più una minaccia fisica, Jessie non era così sicura che non fosse riuscito a infiltrarsi nella mente di Hannah, corrompendola con la sua fede malata, fatta di sangue e nichilismo.
Jessie si alzò in piedi, in parte per sgranchirsi, ma anche perché poteva sentire che stava sprofondando in una sorta di sabbie mobili mentali. Guardò la propria immagine riflessa nello specchio della sala d’aspetto. Doveva ammettere che, nonostante avesse passato gli ultimi due mesi come inaspettato tutore di un’adolescente problematica, aveva ancora un aspetto presentabile.
I suoi occhi verdi erano chiari e limpidi. I capelli castani lunghi fino alle spalle erano puliti, morbidi e sciolti, liberi dalla solita coda di cavallo che portava al lavoro. Un lungo periodo passato senza la paura di essere braccata da un serial killer le aveva permesso di recuperare una routine lavorativa semi-normale, donando alla sua statura di oltre un metro e ottanta una forza e una solidità che da tempo aveva perduto.
La cosa più impressionante di tutte era che nessuno dei suoi casi recenti si era presentato con sparatorie, attacchi con arma da taglio o niente che si avvicinasse a ferite personali. Come risultato, Jessie non aveva aggiunto nessuna nuova cicatrice alla sua enorme collezione, che includeva un segno all’addome, graffi lungo braccia e gambe e una lunga cicatrice rossastra a forma di luna che le percorreva per dieci centimetri circa la base del collo, dalla clavicola alla spalla destra.
La toccò senza pensarci, chiedendosi se stesse per arrivare il momento in cui qualcuno l’avrebbe vista, insieme a tutte le altre. Aveva la sensazione che lei e Ryan si stessero avvicinando al punto in cui sarebbero stati in grado di studiare vicendevolmente da vicino le loro imperfezioni.
Il detective Ryan Hernandez era, oltre al collega che la affiancava regolarmente nei casi, anche il suo ragazzo. Era strano usare quel termine, ma non c’era modo di aggirarlo. Si frequentavano semi-regolarmente almeno da quando Hannah si era trasferita a vivere da lei. E anche se non erano ancora arrivati a quel passo fisico finale, sapevano entrambi che ci mancava poco. L’attesa e l’imbarazzo rendevano l’ambiente lavorativo piuttosto interessante.
Jessie fu risvegliata dai suoi pensieri dalla porta che si apriva. Hannah né uscì, il suo aspetto né turbato né chiuso. Sembrava stranamente… normale, cosa che, considerato tutto quello che aveva vissuto, sembrava di per sé bizzarro.
La dottoressa Lemmon uscì insieme a lei e incrociò lo sguardo di Jessie.
“Hannah,” disse la donna, “voglio parlare un paio di minuti con Jessie. Ti spiacerebbe aspettare un momento qui?”
“Nessun problema” rispose Hannah sedendosi. “In due dovreste riuscire a determinare se sono pazza o no. Io avvertirò solo lo stato della vostra enorme violazione della regola della riservatezza sanitaria.”
“Mi pare una buona idea,” rispose la dottoressa Lemmon, senza adescare all’amo. “Vieni dentro, Jessie.”
Jessie si accomodò sulla stessa poltroncina che usava per le sue sedute e la dottoressa Lemmon prese posto sulla sedia di fronte a lei.
“Voglio essere breve,” disse la donna. “Nonostante il suo sarcasmo, non penso che sia di aiuto ad Hannah la preoccupazione che