Il Travestimento Perfetto. Блейк Пирс
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Sospirando pesantemente, Corinne fece una rapida tappa al bagno e poi raccolse le sue cose dal letto dalla parte opposta della roulotte.
Si rese conto che avrebbe dovuto dire a Monica di portarle la macchina dal garage. Erano cinque minuti a piedi da lì. Considerò l’idea di richiamarla, ma decise di lasciar stare, dato il discorso delle medicine. Non voleva che la ragazza crollasse a causa di un qualche patetico malanno che poteva esserle capitato, e poi trovarsi i tabloid schierati addosso a dargliene la colpa.
Spense la luce principale e si voltò per spegnare uno degli specchi per il trucco. A quel punto la vide. Scritta sul vetro in caratteri cubitali con quello che sembrava proprio il suo rossetto rosso c’era una parola. Un nome, a dire il vero. Lo riconobbe immediatamente, ovviamente. Come poteva non farlo? Negli ultimi dieci anni non era passato giorno senza che pensasse a quella persona. Ma non aveva idea di come fosse arrivato lì. Lo specchio era pulito quando prima si era soffermata a controllarsi le rughe.
Corinne si guardò attorno confusa. E poi, nell’ombra alle sue spalle, scorse del movimento, qualcuno che veniva verso di lei con una corda tesa tra le mani. Prima che potesse voltarsi o reagire, sentì la corda che le si serrava attorno al collo e stringeva. Nello specchio del trucco vide che il suo aggressore indossava un passamontagna nero, proprio come quello del Predone nella scena che avevano appena girato.
Lottò per liberarsi, ma ogni movimento sembrava solo far stringere ancora di più la corda. Cercò di inspirare una boccata d’aria, ma non gliene entrò in corpo neanche un soffio. Mentre iniziava a scivolare a terra, il cuore che batteva di paura, il cervello che le esplodeva nel panico più totale, le venne in mente un pensiero strano e inaspettato: confronto a questo, il tentativo di Terry Slauson di stringerle il collo appariva quasi tenero.
Prima di avere la possibilità di riconoscere l’ironia della sua considerazione, era già morta.
CAPITOLO DUE
Jessie Hunt mise il telefono in modalità silenziosa e si distese tranquilla a letto con gli occhi chiusi, sperando di addormentarsi subito. Dopotutto non doveva andare da nessuna parte.
Ma non servì a nulla. La sua mente stava già galoppando, nonostante i suoi migliori sforzi per farla rallentare. Era lunedì mattina. Avrebbe dovuto essere un giorno rilassante, almeno confronto a quella che era la routine in quel periodo. Non aveva incarichi per le mani. Non doveva fare fretta ad Hannah perché si preparasse per andare a scuola. Con una sola eccezione, il suo programma era esattamente quello che avrebbe voluto. Eppure si sentiva rosa dalla pressante sensazione di avere del lavoro da fare. Si mise a sedere.
Il movimento le mise il corpo in condizione di totale disagio. La spalla malandata le faceva male, probabilmente per averci inavvertitamente dormito appoggiata sopra. E la pelle ancora irritata alla base della schiena le dava una sensazione strana, come di un costante prurito che sapeva di non potersi grattare.
Guardando l’altro letto dalla parte opposta della stanza, vide che Hannah Dorsey, la sorellastra di cui era tutore a tempo pieno, era ancora addormentata e russava leggermente. Jessie si alzò e uscì in punta di piedi, percorrendo il corridoio in direzione del bagno. Vide che la porta dell’altra stanza era chiusa, il che significava che Kat era ancora addormentata o, più probabilmente, si stava vestendo e preparando per la sua giornata. Ad ogni modo, significava che il bagno era libero.
Katherine ‘Kat’ Gentry, la migliore amica di Jessie, stava ospitando lei e Hannah a casa sua mentre cercavano una nuova sistemazione. Jessie non poteva più sopportare il pensiero di vivere nel precedente condominio. Lì erano successe troppe cose orribili.
Aveva promesso a Kat che se ne sarebbero andate nel giro di un mese, e anche se erano passate solo due settimane da quando si erano trasferite lì, si sentiva addosso una certa pressione. In parte era perché si sentiva in colpa che Kat non potesse comodamente avere lì quando più le faceva comodo il suo compagno, un vice sceriffo di Arrowhead Lake che si chiamava Mitch Connor. Al momento riuscivano a vedersi solo durante i finesettimana. E ora erano stati costretti a mettere in sospeso anche quello.
Ma oltre a questo, trovare un nuovo posto con sufficiente spazio per due persone – e magari tre a un certo punto – e che offrisse tutte le misure di sicurezza necessarie, non era facile. Anche se il suo ex marito Kyle Voss non era più una minaccia, Jessie aveva ancora un sacco di altri nemici, molti dei quali avrebbero gioito di fronte a una possibilità di poterla sistemare una volta per tutte.
E poi ricordò a se stessa che c’era anche un’altra necessità. La nuova casa avrebbe dovuto essere accessibile alle persone con disabilità. Il compagno e convivente di Jessie, il detective del Dipartimento di Polizia di Los Angeles Ryan Hernandez, non era ancora per niente pronto a lasciare l’ospedale. E a dire la verità non era certa che ci sarebbe mai riuscito. Ma se un giorno l’avessero mai dimesso, avrebbe avuto bisogno di rampa per la sedia a rotelle, barre di sicurezza e tutte le attrezzature a cui lei neanche aveva ancora iniziato a pensare.
Jessie si diede un’occhiata nello specchio prima di lavarsi la faccia. Non aveva l’aspetto rilassato di una donna nel suo giorno libero. Le borse scure sotto ai suoi luminosi occhi verdi erano meno evidenti, ma il rossore attorno alle iridi lasciava comunque intendere una certa mancanza si sonno. I capelli castani che le arrivavano alle spalle non erano raccolti nella sua solita coda, ma apparivano sfibrati come si sentiva lei stessa. Così china sul lavandino, la sua figura atletica di un metro e ottanta appariva molto più minuta. Addirittura gli zigomi ben delineati sembravano meno pronunciati del solito. Aveva compiuto trent’anni da poco, ma questa mattina si sentiva più vecchia di un decennio.
Finì di lavarsi e uscì dal bagno, dove trovò Kat che aspettava con pazienza. L’amica era vestita in modo casual con un paio di jeans e una maglietta larga che copriva il suo fisico ben tornito. Anche se non era più un ranger dell’esercito, né il capo della sicurezza in un penitenziario psichiatrico, aveva sempre l’aspetto di qualcuno che era meglio non fare arrabbiare. Era probabilmente una buona cosa, perché la sua nuova professione di detective privata le forniva ancora qualche opportunità di ficcarsi in delle scaramucce di tanto in tanto.
“È tanto che aspetti?” le chiese Jessie con tono colpevole.
“Un paio di minuti,” la rassicurò Kat. “Non ho fretta. Mi devo solo dare una spazzolata ai capelli. Il caffè è quasi pronto se ne vuoi un po’.”
“Grazie. Potrebbe tornarmi utile.”
“Un’altra nottataccia?” chiese Kat comprensiva, ben consapevole delle recenti traversie vissute da Jessie.
Lei annuì.
“Questa volta non ricordo gli incubi nel dettaglio, ma ho ancora delle immagini che mi fluttuano nella testa.”
“Vuoi parlarne?” le chiese Kat con delicatezza.
Jessie era dibattuta se farlo o meno. Era preoccupata che, parlando dei suoi brutti sogni, avrebbe dato loro maggiore potere. Ma tenersi tutto dentro, come aveva spesso fatto in passato, non le aveva comunque giovato molto. Alla fine decise di scegliere il versante della confidenzialità.
“È sempre la stessa roba. Vedo Kyle che strangola Garland Moses fino a ucciderlo in quella casa sulla spiaggia. Lo vedo piantare in coltello nel petto di Ryan. Vedo me stessa mentre presto a Ryan i primi soccorsi, fino a che non riesco più a muovere le braccia. Poi passo a Kyle che sbatte Hannah sul divano e lei che si accascia. Rivivo la sensazione di soffocare Kyle, il piacere di sentire la sua trachea che si spezza. Sai, roba divertente di questo tipo.”
Kat