L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi
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Читать онлайн книгу L'assedio di Firenze - Francesco Domenico Guerrazzi страница 11
Dalla interna commozione agitato, qui si rimase il Machiavello; ma in quel modo medesimo che, cessati i remiganti, la navicella continua nell'incominciato cammino, così, perchè tacessero i labbri, dalla fronte, dagli occhi, da tutta la faccia non ispirava meno amore di patria e di libertà.
Come dimentico della malattia che lo aggrava, si solleva alquanto sul fianco e stende la destra verso una tazza colma di tisana a capo del letto.
Quando la morte si apparecchia a vincere con la infermità la vita, raccoglie penosamente nel corpo del moribondo la somma di ogni male sofferto, e le carni, i nervi e l'ossa corrode con infiniti dolori diversi: la morte giunge amara all'uomo; e se fosse stato un bene, come Saffo cantava, Dio l'avrebbe creata per sè; però il Machiavello appena ebbe mosso la destra, la ritornava nella prima positura, chè intorno alla scapula e giù nei muscoli gli corse uno spasimo acuto come quando fu posto alla prova della corda; la guancia sinistra si contrasse di forza verso l'occhio, seco traendo le labbra in atto di angoscia; ma si ricompose all'improvviso e sorridendo riprese: «Dante, porgetemi, prego, cotesta tazza.»
Fra' Benedetto da Foiano, sottoposto un braccio ai guanciali, solleva amorevolmente il corpo del giacente. Dante gli appressa alle labbra la tazza; e mentre egli beve, suo malgrado una lagrima gli prorompe dagli occhi e giù scendendo si mesce alla bevanda, sicchè Nicolò lo guarda fisso e dopo alcuni istanti favella:
«Nella estremità a cui mi trovo condotto, nissun liquore può meglio confortarmi le viscere, Dante, della vostra pietà: ve ne renda Iddio quel rimerito che a me non è dato; ben aveva mestiero di questa consolazione l'anima mia, prima di volgersi a considerare la ingratitudine umana. Gran mercè, Dante, gran mercè; voi mi avete apportato un bene maggiore di quello che potete immaginare: che voi mi teneste in pregio, sperava; che mi portaste affetto, forte temeva: ora poi saluterò la morte come amica, dacchè sopra la soglia del sepolcro mi accorga non avere perduto la speranza e trovato l'amore.»
Tacque, e seguì un silenzio tanto profondo che ben si udiva lo zufolio sottilissimo dell'insetto aleggiante intorno ai moribondi; dopo lunga pausa, il Machiavello, crollando il capo, continua:
«Il mio cuore non conobbe altro palpito che per la patria: queste braccia lacerò il carnefice per amore della patria...; che importa? Non sono ancora sceso nel sepolcro, e gli uomini mi calpestano il cuore come una pietra; i nervi e l'ossa dei bracci spasimano di cocentissima angoscia, e gli uomini mi accusano averli adoperati ad ammaestrare tiranni; questi bracci niegano accostare alla mia bocca una bevanda, ed essi affermano essersi distesi ad implorare l'elemosina ai miei persecutori; della fama incontaminata in fuori non lascio ai miei figli altro retaggio, e non pertanto m'invidiano anche la fama. O uomini, quanto vi avrei adorato migliori e quanto vi amo anche tristi! A voi, carissimi, affido il mio nome; difendetelo voi; e se da alcuno udrete parola che rechi oltraggio alla mia memoria, più generosi di san Pietro, non vogliate negare il vostro maestro: dove il vitupero muova da uomo invidioso, tacete, imperocchè all'odio della mia virtù si aggiungerebbe allora l'odio che nasce dal sentirsi dichiarato iniquo; ma dove comprendiate lui essere ingannato, ditegli animosi in mio nome: Nicolò Machiavelli non insegnò di tôrre ai ricchi la roba, ai poveri l'onore, a tutti la vita[21]: sappiate volersi un gran cuore per intendere un cuore grande; pochi o nessuno averlo compreso; e che quando egli potè onorare la patria, eziandio «con pericolo e carico suo, sempre volentieri lo fece perchè conosceva come l'uomo non debba avere maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dipendendo prima da lei l'essere e di poi tutto quello che la fortuna e la natura ci hanno concesso[22];» aggiungete credere io nella virtù come in una via per la tristizia degli uomini smarrita, e che essi potevano, anzi dovevano, ritrovare per indirizzarsi di nuovo al perfezionamento: la politica scevra dalla morale per me affermarsi impossibile; nè già per morale intendere io la immagine astratta della cosa, «sibbene la verità effettuale della medesima»[23], secondo i tempi, i casi e gli uomini diversa; a patto però che se la presente morale non fosse ottima, dovesse pur sempre dirigersi al meglio: la politica magnanima convenirsi ad un popolo grande, come il romano; essere in lui non solo virtù, ma necessità; non potere da questo concetto deviare senza riuscire agli occhi proprii ed altrui contennendo con danno inevitabile della maestà e forze sue; ai deboli invece convenirsi deboli consigli, e, se circondati da tristi, ordinare i casi l'uso della perfidia e giustificarlo: se non che allora devono i deboli mettere in opera l'ingegno per uscire da cotesto stremo dove è necessità la perfidia, e sollevarsi a quello nel quale sia necessità comportarsi magnanimamente. Amai la repubblica, ma, e molto più, amai la indipendenza, perocchè la seconda mi sembrasse necessità di vita, la prima poi accidente di forma. Considerai pertanto se stato alcuno italiano, governato a reggimento popolare, potesse conseguire il santissimo fine di rassettare le membra a questa misera patria: Venezia e Genova non mi parvero, come in vero non sono, libere città; volsi l'ingegno a meditare se con Fiorenza ci venisse fatto di riuscire, e non rinvenni virtù necessaria. Più che amorevoli del vivere libero conobbi i cittadini travagliati dal desiderio di dominare, disposti ancora a servire, purchè servendo potessero opprimere altrui; molti, odiatori di leggi o buone e triste ch'elleno fossero, siccome vaghi di licenza, non già del composto vivere civile; alla salute pubblica preponenti i comodi privati; più agli uomini avversi che alle cose; da vecchia e vergognosa tirannide liberati, intenti a gettare le basi di una nuova e molto più vergognosa, creando il Soderini gonfaloniere perpetuo: allora pensai essere necessaria una servitù e doversi ordinare una forza «la quale con potenza assoluta ponesse freno alla materia corrotta, le ambizioni degli individui prostrasse[24]», e la schiatta umana afferrando pei capelli la costringesse a ritemperarci nelle battaglie, ad abbandonare i vizii nella corsa faticosa verso la indipendenza. Chè se abbiosciata libertà, che indarno mentisce nome di civile, deve approdare a tirannide, meglio tirannide barbara che mette capo alla libertà. Forse chi sarebbe stato da tanto, sè troppo estimando superiore agli uomini, i quali spingeva incontro al bene a colpi di flagello, non avrebbe deposta la sferza, se non per convertirla in scettro; ciò poco doveva montare, imperciocchè la difficoltà dell'impresa consiste nell'agitare ferocemente le generazioni e cacciarle nella via del moto; all'altro provvederanno il tempo, la fortuna e la necessità delle cose. Però, favellando di coloro a cui la fortuna prestava occasione di riformare gli stati, diceva: «Questi essere dopo gli iddii i primi laudabili; e perchè pochi furono che avessero comodo di farlo e pochissimi gli altri che lo sapessero, così a piccolo numero ridursi coloro che lo facessero[25].» E fermo nel mio concetto insegnai: «Il prudente ordinatore di una repubblica che abbia animo di volere giovare non a sè, ma al bene comune, non alla sua propria successione, ma alla comune patria, doversi ingegnare di tenere l'autorità solo; nè mai savio intelletto riprendere alcuno di azione straordinaria che per ordinare una repubblica usasse: convenir bene che, accusandolo il fatto, lo scusasse l'effetto; e quando fosse buono come quello adoperato da Romolo uccidendo Tito Tazio e il fratello Remo per ordinare Roma, sempre doverlo scusare; perchè colui che è violento per guastare, non quello che è violento per racconciare, si deve riprendere; non pertanto corrergli obbligo di essere virtuoso e prudente da non lasciare ereditaria ad un altro quell'autorità che si ha presa, perchè, essendo gli uomini più pronti al male che al bene, potrebbe il suo successore usare ambiziosamente quello che da lui fosse stato virtuosamente ordinato[26].» Dipoi, celebrando coloro che intendono restituire gli uomini alla maestà della propria origine, non dubitai affermare: «Dovesse un principe innamorato di gloria desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo; e veramente i cieli non potere dare agli uomini maggiore occasione di gloria, nè gli uomini poterla desiderare maggiore. E in somma considerassero coloro ai quali compartivano i cieli una tanta occasione come fossero loro proposte due vie: l'una che gli fa vivere sicuri e dopo morte gli rende gloriosi; l'altra che gli fa vivere in continue angustie e dopo morte lasciare di sè una sempiterna infamia[27].» Per le quali cose tutte mi volsi a favorire Cesare Borgia, come quello che, per essere figliuolo di papa Alessandro e sovvenuto da Luigi XII, di voglie e di animo pronto, sembrava sortito a ricomporre le membra sparse d'Italia: nè già il Valentino, crudelissimo ai baroni della Chiesa, era tiranno del pari spietato ai popoli venuti in sua potestà; perchè racconciò la Romagna e