Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
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Читать онлайн книгу Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini страница 17
«Ho avuto paura — dice candidamente — ma una paura! Mica delle fucilate e delle cannonate — corregge subito. — Ah, no!... È andata così: era notte fatta, la mia compagnia stava alla prima linea, fra rocce, scogli, sassi, e buio pesto. Abbiamo sentito un rumore di gente che si avvicinava alla nostra destra. «Fermi ragazzi» — ci fa il capitano. La gente si avvicinava, e noi fermi. Poi tutto ad un botto, un fuoco d'inferno a dieci passi. Erano gli austriaci. Non si distingueva niente. La compagnia ripiegò subito per non essere presa, ma io cercavo gli occhiali. Sì, signore, sono miope, m'erano caduti gli occhiali e li cercavo. E mi sono trovato in mezzo a tre accidenti che mi acciuffavano urlando certe parole difficili. È allora che ho avuto paura. Che paura! Una paura che mi ha dato la forza d'un leone. Calci, pugni, morsi.... Ma fu un momento. Eravamo sull'orlo d'un precipizio, che io non vedevo. Per non essere trascinati giù, m'hanno lasciato andare. Così sono caduto fino in fondo, ma ero libero. E mi sono conciato così.»
— E poi? — gli hanno chiesto a questo punto.
«E poi, chi lo sa! Devo aver dormito. Quando mi sono svegliato era giorno. Non capivo niente, non sapevo dove ero. Cannonate, fucilate, e, ad un certo punto, su, in alto ho sentito urlare: Savoia! Savoia! Allora ho pensato che dovevo risalire per ritrovare i nostri, e via, piano piano, come una lumaca, tra le pietre. Ho girato così tutto il giorno. Alla fine una voce mi ha gridato: Eh! torna indietro! Dove vai? Da quella parte ci sono gli austriaci! — Ho riconosciuto il maggiore, che mi avvertiva. Allora, naturalmente, sono tornato indietro. Basta, per farla breve, alla mattina dopo ero arrivato sulla strada maestra di Ronchi. Un po' mi fermavo a riposare e a mangiare l'uva acerba delle vigne, un po' mi trascinavo. Passavano convogli di munizioni, passavano riserve. Verso le nove m'hanno raccolto..... Cosa? Se ho sofferto molto? No, ero così contento di essere scappato da quelle grinfie!»
Gli sfebbrati, i convalescenti, quelli che si possono già alzare, vestiti di pijama smisurati, qualcuno zoppicando, qualche altro col braccio al collo, passeggiano nelle corsìe, si aggruppano, conversano a bassa voce, educati, disciplinati, con un'aria da bravi collegiali. Basta un piccolo ordine di una dama infermiera, per vedere i soldati ubbidire con una docilità spontanea e gentile.
Alcuni feriti alle gambe in via di guarigione deambulano sostenuti alle ascelle da un apparecchio a ruote, e l'arto malato, informe nell'ingessatura, inizia così, rigidamente, i primi passi: «Largo, largo! — avverte il ferito sorridendo mentre sospinge la macchina col piede sano — largo che passa l'automobile!». L'apparecchio è anche chiamato velocipede. Lo scherzo fiorisce nella pena. La gaiezza spunta come il bucaneve nel biancore triste dell'ospedale. Una giovialità buona e composta è in tutti i discorsi, trova la sua espressione in ogni dialetto d'Italia. I figli delle più lontane regioni si uniscono qui nella più vera e sentita fratellanza del sangue. Hanno gli stessi entusiasmi, la stessa passione, la stessa speranza di tornare al fuoco.
Sono senza rancore verso la guerra che li ha colpiti. Il loro pensiero torna con compiacenza fra i compagni che si battono, anche nella febbre, anche nel delirio. Un rude alpino gravemente ferito, supino e immobile, ha voluto scrivere qualche cosa sul ventaglio che gli avevano messo in mano per rinfrescarsi il volto febbricitante. Faticosamente vi ha tracciato col lapis questa frase: «Sempre avanti i bravi alpini per la grandezza della patria!». E, soddisfatto e assorto, egli agita stancamente il ventaglio, come se ascoltasse nel soffio leggero della carta il grido che le ha confidato.
Il suo letto è in fondo ad una grande sala. Ora l'alpino migliora, e sulla lavagna fissata alla spalliera un numero indica che la febbre scema. Quando le sue condizioni erano più gravi ed egli pareva moribondo, arrivò dal suo paese, da Belluno, il padre chiamato di urgenza. Era un grosso montanaro vestito a festa, dall'aria di fattore, con una gran catena d'orologio attraverso il panciotto, la faccia colorita tagliata da un paio di baffoni neri. Commosso, incapace di parlare, le mascelle convulse, gli occhi pieni di lacrime, il padre si fermò ai piedi del letto. E fu il figlio che, sorridendo con le labbra bianche, gli fece coraggio: «Vieni avanti, animo, non temere, vedrai che non è niente, diamine!...».
Questo soldato ritornerà alla vita e alla salute grazie al successo di una difficile operazione che egli ha subìto. Come lui, innumerevoli sono i feriti salvati dalla scienza e dall'abnegazione di chi li cura.
Un risultato così straordinario è dovuto prima di tutto alla perfezione delle prime medicazioni, fatte spesso in difficili condizioni sul campo, poi alla rapidità del trasporto dei feriti dalle ambulanze agli ospedali — per la quale si sono potuti ricevere a Milano dei feriti caduti il giorno prima sull'altipiano del Carso — e infine alla perizia, all'amore, all'infaticabilità dei medici e degli infermieri ai quali è affidata la cura vera e definitiva.
Se è meraviglioso l'organismo che abbiamo saputo creare nei servizi sanitarî della guerra, più meraviglioso è lo spirito che li anima. Nella lotta ostinata contro la morte, il personale ospedaliero di dottori, di dame volontarie, di suore, non si concede riposo. Le esistenze in pericolo sono difese con un accanimento silenzioso fatto di sacrifici. Se il morale dei feriti è così alto, molto si deve all'atmosfera di protezione affettuosa che li circonda, alla vigilanza attiva e ininterrotta che ognuno sente intorno al proprio male. Il male appare già guarito per il fatto che è così curato. Non ci si pensa più tanto, e la mente vola alle speranze.
Perciò il ferito sorride.
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