Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
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Читать онлайн книгу Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini страница 13
Le due porte sono Tolmino e Gorizia.
A Tolmino per la vallata dell'Idria e a Gorizia per la vallata del Vipacco sboccano dunque nella valle dell'Isonzo fasci vitali di strade, che scavalcano il fiume su molteplici ponti. Questi sono i soli ponti che non siano stati ancora distrutti. È oramai un elemento d'arte militare noto anche ai ragazzi che per difendere efficacemente il varco di un fiume bisogna portarsi avanti, bisogna cioè occupare non soltanto la riva da proteggere ma prendere solidamente posizione sull'altra sponda, stabilire delle opere di arresto più lontane che sia possibile, tanto per impedire al nemico l'accesso al varco, quanto per garantire a sè stessi il libero uso del varco stesso e passare, occorrendo, dalla difensiva all'offensiva.
È appunto quello che a Tolmino e a Gorizia gli austriaci hanno fatto e che in termine tecnico si dice «testa di ponte». In questi due punti essi si sono radicati al di qua del fiume. La natura del terreno li ha straordinariamente aiutati. Allo sbocco della valle dell'Idria, al di qua dell'Isonzo, presso Tolmino, si ergono due montagne gemelle, unite per le falde, isolate in giro, cinte da tre lati da una curva sinuosa dell'Isonzo: una specie di gigantesca e dominante coppia di sentinelle a guardia di una soglia. Il loro nome è stato fatto sui bollettini: sono le montagne di Santa Maria e di Santa Lucia. Fortificate, munite di cannoni di grosso e di medio calibro, le due montagne comandano tutti gli accessi.
Con un'analoga prodigalità la natura ha eretto avanti a Gorizia, sulla destra dell'Isonzo, non meno formidabili baluardi nelle brusche alture di Podgora, alle quali si attacca un tumulto di colline, che si culmina, un poco al nord di Gorizia, nel monte Sabotino, fosco, oblungo, imponente. Tutto questo sistema di vette e di declivi è fortificato a oltranza.
Riducendo la difesa dell'Isonzo all'immagine rudimentale del muro con due porte, un solido muro crestato di vetro e due porte terribilmente barricate avanti alla soglia, comprendiamo chiaramente nel suo schema la nostra azione, così bene descritta dai bollettini. Mentre investiamo la porta principale, Gorizia, abbiamo scavalcato il muro alle due estremità, Caporetto e Monfalcone, e incuneiamo la nostra azione all'altra parte della barriera. A nord e a sud delle due teste di ponte austriache, abbiamo così creato noi due teste di ponte italiane, per le quali l'offensiva penetra e lentamente si allarga al di là dell'Isonzo.
Ed ora guardiamo.
Nella mattinata serena, la pianura superba, coperta da vegetazioni così folte che simulano il bosco, sfuma via e impallidisce, contro la luce del sole, in tinte evanescenti. Al primo momento la battaglia, come tutte le battaglie moderne, è invisibile, incomprensibile, un frastuono tonante, un formarsi e un dissolversi di fumo, un chiamarsi e rispondersi di rombi e di boati, uno scintillare vago di vampe in località imprecisabili. E tutto questo sembra poca cosa nell'impassibilità sublime del paesaggio.
A chi osserva dall'alto di una delle rare collinette che levano sulla pianura la molle groppa impellicciata di acacie, i villaggi, immersi nelle immobili onde delle verdure, si fanno riconoscere ad uno ad uno, per il campanile. Un campanile strano, con la cupoletta slava, che ricorda quello delle chiese russe: Romàns — più vicino, un campanile aguzzo, ardito, veneto: Versa — un campaniletto campestre che una granata ha sfiancato: Fratta. Sono tutti paesi che i cannoni austriaci hanno successivamente preso di mira. Gli abitati sorgono secondo una logica della viabilità, le case si aggruppano alle confluenze di strade, ogni villaggio chiude un piccolo centro di comunicazioni, e l'artiglieria nemica, colpendo i villaggi, ha cercato di colpire ai nodi le maglie della grande rete di vie che in ogni senso vena di bianco la pianura friulana.
Sotto alle alture che chiudono il piano, Gradisca si sgrana bianca lungo la sponda dell'Isonzo, che è indicata da un infoltire di verde, da uno schieramento solenne di pioppi. Dei giardini, delle ville, dei recinti, e, quasi fuori del paese, i grandi edifici della scuola normale, una caserma, degli stabilimenti industriali sui quali le ciminiere si levano sottili come antenne. Come tutto sembra quieto laggiù, nel sole!
Alla città fa sfondo il Monte San Michele, che è un'ultima propaggine del Carso, e più lontano, più in alto, irrompono, azzurre e pallide, le vette del Monte Re. Ai piedi delle alture, sul limite della pianura, come la spuma al bordo del mare, è un biancheggiare quasi continuo di paesi, greggi di case che si dissetano nell'Isonzo. Sdràussina, Sagrado, Fogliano, San Pietro, e sembra tutto un prolungamento di Gradisca. Sulle pendici, dei prati verdi, delle boscaglie oscure, delle strade deserte che serpeggiano ascendendo, delle trincee austriache abbandonate — lunghe e sottili ferite nere, insolentemente visibili. Sono probabilmente delle false trincee, incaricate di attirare la nostra attenzione. Le vere si nascondono, si mascherano con erbe e fronde.
S'incomincia a comprendere.
Le tappe della nostra avanzata sono segnate sulla pianura. Ogni sosta ha lasciato una linea fulva di terra smossa, un solco di trinceramenti dai parapetti punteggiati di feritoie, una barriera oscura che attraversa i prati, sparisce nei vigneti, tocca dei paesi, si nasconde, si perde. Il più vicino è il fronte sul torrente Versa, il fronte assunto il primo giorno della guerra, come i comunicati descrissero. Sono tutte abbandonate, quelle strane arginature della battaglia che hanno segnato sulla terra una specie di gigantesco diario della conquista, sono tutte lasciate indietro. La fanteria non si vede più, è laggiù a Gradisca, tiene quella linea di paesi, tocca il fiume, si annida nella boscaglia delle rive, pare scomparsa.
Nell'apparente solitudine luminosa del paesaggio, sono i proiettili di cannone che rivelano vagamente le disposizioni del combattimento, che lasciano intuire le masse combattenti sotto la coltre delle vegetazioni. Due o tre stormi di shrapnells austriaci scoppiano sulla pianura, un polverone di calcinacci annebbia per un istante un campanile, delle nubi bianche si formano sulle cime d'un filare di platani. Una pausa, poi altre nubi si sfilacciano lentamente nell'aria calda e quieta, e le esplosioni echeggiano. Ma da località imprecisabili si solleva un tumulto impetuoso di rimbombi. La risposta.
Sono obici italiani che interloquiscono, ed ecco le vette sopra Sagrado in convulsione. Se gli shrapnells austriaci ci hanno indicato dove stanno forse delle truppe nostre, sappiamo bene ora dove si nascondono i cannoni che li hanno lanciati. Le granate italiane tempestano le vicinanze di una villa circondata da boschetti, sul ciglio dell'altura. È Castello Nuovo. Nembi di polvere e di fumo la avvolgono; i boschetti scompaiono nelle dense nubi degli scoppi. La batteria austriaca non fiata più. È un episodio breve, repentino, minuscolo.
Altri si succedono, incessantemente; la nostra attenzione è chiamata da cento parti. Bisogna seguire le indicazioni del cannone. Esso spiega la battaglia, a poco, a poco. Su tutto il fronte l'artiglieria romba, ma la tempesta più violenta, più intensa, più ostinata, è verso Gorizia.
Oggi è uno di quei giorni che i bollettini chiamano di «attività sul basso Isonzo». Sono i giorni nei quali si fa un passo avanti. Intorno a Gorizia è l'uragano. La città, i sobborghi, le alture di Podgora, impallidiscono in una bruma grigiastra.
Gorizia si nasconde in parte dietro alle alture di Podgora, s'incastra fra le montagne, si annida in quell'ultimo lembo di pianura che s'insinua verso la gola dell'Isonzo. Da lontano, Gorizia, che spunta dalla valle affacciandosi nel piano, fa l'effetto di un torrente di case che dilaghi dallo sbocco e si spanda in un'effervescenza di muraglie bianche. I bordi della città presso l'Isonzo, dove delle linee di difesa austriaca si annidano, la stazione ferroviaria, le adiacenze dei ponti, sono bombardati. L'incendio di Lucinico si allarga. Lucinico era compreso nelle fortificazioni di Podgora e la popolazione l'aveva abbandonato.