Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
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I soldati salutano sempre con gioia ogni passo in avanti. Gremiscono le aperture dei furgoni — che delle fronde, dei fiori, delle bandierine adornano — e gesticolano, e ridono, e gridano, seduti alcuni sui bordi, le gambe ciondoloni, mentre dietro agli uomini, nell'oscurità interna, si profilano teste di cavalli, assonnate e gravi; e un'oscillazione di zaini, di cinturini, di giberne, di tascapani, pende dal soffitto. Sui vagoni a piattaforma i carriaggi si allineano, con le stanghe in alto come braccia levate. Sotto a grandi copertoni di tela grigia s'indovinano forme di cannoni.
Alla stazione di San Giorgio assisto all'arrivo d'un treno di feriti.
È un treno della Croce Rossa, tutto nuovo. Vestite di bianco, delle dame di un comitato locale vanno premurose da un vagone all'altro distribuendo bibite ghiacciate. Non si ode un lamento.
La prima cosa che i feriti domandano è d'essere informati della guerra. Hanno sete di notizie. Portati via dall'azione, vogliono sapere quel che è successo dopo, quello che succede altrove. Si direbbe che soffrano più per il distacco dal combattimento che per le ferite ricevute.
«Che cosa si sa oggi?» — chiedono prima di portare alla bocca il bicchiere madido. «Buone nuove, Monfalcone è presa!». La voce passa da una cuccetta all'altra. Tutti si sollevano sui gomiti, i meno sofferenti balzano a sedere, è una agitazione sotto le lenzuola candide, delle teste bendate sorgono dai cuscini: «Monfalcone è presa!».
Dei dialoghi brevi s'intrecciano: «Ah, se fossi sicuro d'avere ammazzato un austriaco, non me ne importerebbe della ferita!» — esclama riadagiandosi cautamente uno che ha la spalla fasciata. Dalla cuccetta sopra a lui una voce rauca scende: «Io uno almeno l'ho infilato!» — è un fantaccino che è stato ferito di baionetta alla coscia durante un assalto. Dopo un istante riprende: «Io uno, e lui (additando un altro lettuccio) lui due!».
Qualche esclamazione d'incredulità, o d'invidia, si leva. «Due, due! — ripete la voce. — Era vicino a me. Ci sono i testimoni. Due austriaci si sono buttati addosso al capitano. Eravamo sulla trincea. Allora lui l'ha spacciati tutti e due, ma ha preso una baionettata. È vero? tu, parla!». — Ma l'eroe non può parlare, manda un mugolìo d'approvazione, poi solleva il braccio nudo, un braccio nodoso, forte, bronzato, che emerge dal biancore del letto e agita l'indice e il medio tesi ripetendo col gesto ostinato: «Due, due, due....».
«Silenzio, ragazzi! — ammonisce dolcemente un infermiere che passa. — Chi ha ancora sete?».
L'abnegazione del personale sanitario, tutto, è magnifica. Ad essa si deve se i nostri feriti sono quasi tutti leggeri. La gravità d'una ferita è spesso prodotta soltanto dal ritardo delle prime cure. Con questo calore torrido, anche gl'infermieri, stanchi, debbono aver sete, e pure essi rifiutano le bibite che vengono offerte anche a loro quando tutti i feriti hanno bevuto.
L'attesa è lunga alla stazione; occorrono molte manovre per sgombrare al treno la via, e nei vagoni chiari, odoranti di medicinali, si rifà il silenzio. Alcuni feriti, che dal comitato delle dame hanno ricevuto in dono delle cartoline militari e dei lapis, scrivono lentamente, seduti sul letto. Uno fuma voluttuosamente una sigaretta e ne scaccia il fumo facendo ventaglio della mano, perchè è proibito fumare. La stazione sembra divenuta deserta. Sul marciapiede affocato passeggia il territoriale di sentinella, solo. Fischiano le locomotive laggiù verso i dischi, sui binarî abbacinanti, e il cannoneggiamento brontola dalla parte del Carso.
Il desiderio di tornare al fronte è comune a quasi tutti i feriti. È in loro la fede profonda e l'aspettativa della vittoria. Si rammaricano di esser portati via «sul più bello». Sono presi dalla passione della battaglia, dall'istinto della lotta, sentono ardentemente tutta la grandezza e la giustizia sacrosanta della nostra guerra, ma sopra tutto hanno come il sentimento che «si ha bisogno di loro», la preoccupazione di un posto vuoto lasciato nelle file. È uno spirito straordinario di solidarietà, è un senso altissimo del dovere, che rivelano nella razza virtù guerriere d'una possanza insospettata.
All'ospedale di San Giorgio è ricoverato un soldato automobilista; conducendo la sua macchina, per evitare due cavalleggeri che chiudevano la strada ad una svolta, egli era andato a finire nel fossato, ferendosi contro al volante. Correva incaricato di una missione: ora il suo incubo è di compierla. Ha la febbre, non può muoversi dal letto, ma prega, scongiura medici e infermieri: «Bisogna che io vada, credete, è importante, lasciatemi andare, tornerò dopo...!». Questo senso di un dovere assoluto, improrogabile, sacro, di un dovere che va compiuto ad ogni costo finchè c'è un alito di vita, è diffuso nell'esercito ed ha la profondità d'una convinzione religiosa.
Per tutto dove passo trovo degli esempi umili e magnifici di questa nobile comprensione del dovere, anche fuori dei combattimenti, nell'oscura fatica dei servizi. Ecco, in vicinanza del fronte, a Medea, sulla via polverosa passano i cucinieri di un reggimento che sono andati per l'acqua; sono sporchi, sono stanchi, non dormono che tre o quattro ore per giorno, sul far dell'alba. Uno di essi, dagli occhi febbricitanti, ha la mano destra fasciata, enorme, sollevata e tremante. Porta il secchio sulla spalla sinistra. «Come stai?» — gli domanda affettuosamente un ufficiale superiore. Il soldato, un contadino calabrese piantato sull'attenti, risponde: «La mano mi fa male ancora!». Quando si è allontanato, l'ufficiale mi spiega: «È caduto, e cadendo si è immerso la mano nell'acqua bollente; il medico gli ha ordinato di coricarsi sotto la tenda, di restare in riposo, immobile, ma lui dice che c'è troppo da fare, ed ha pregato i superiori di lasciarlo lavorare finchè Dio gli dà la forza di resistere».
Poco lontano, a Viscone, ad una tappa di carreggi, passa lungo i muri del villaggio un sergente d'artiglieria zoppicante, col piede sinistro fasciato. È stato ferito e mandato alla medicazione, ma egli afferma che non è niente ed evita i posti sanitari perchè «lo portano via». «Sono sicuro — mi dice — che riposandomi qui domani potrò rimettere la scarpa e rimontare a cavallo; così ritrovo subito la batteria....».
Egli si è fermato a portata di voce, per dir così, della sua batteria, e ne ascolta i colpi lontani, e li riconosce: «Ecco, è lei.... — e con un sorriso soddisfatto — Come sona duro, eh?». Il profano non sente che un confuso e formidabile rimbombare di tuoni verso Gorizia.
Avanti, gli avvenimenti ci chiamano con questo rombo tempestoso. Andiamo verso l'Isonzo.
Come tutto prova l'iniquità della frontiera che abbiamo cancellato! Come ogni cosa è italiana al di là! Vi è l'impronta nostrana sulla terra, nel paesaggio, nella natura. Le vegetazioni come gli uomini gridano la loro italianità. Presso antiche ville, che hanno nomi legati alla nostra storia, vecchi cipressi muscolosi ergono la loro mole gigantesca, oscura, solenne, che sembra un'affermazione vigorosa e superba di nazionalità; si direbbero il simbolo caratteristico del nostro suolo; le coltivazioni, i parchi, i giardini, tutta questa campagna meravigliosa, prodigano forme e colori che sono unicamente della nostra patria. Viaggiando sulle regioni conquistate s'intuisce una unità più profonda ancora di quella della razza, dei costumi, della lingua, un'unità perenne, inalterabile alle emigrazioni e ai dominî, eguale sotto alle correnti e alle tempeste umane, una unità eterna: quella della terra.
La strada bianca corre ancora nell'ombra dei platani, e di tanto in tanto qualcuno di questi giganti, tagliato per formare una barricata austriaca, giace abbattuto, rovesciato nel fosso o sul bordo erboso. Barricate e trincee chiudevano