Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini

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Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini

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style="font-size:15px;">      Si combatte per la conquista di ciglioni nudi, sassosi, sui quali non si possono scavare trincee. La parola Carso viene dal celtico carn che significa roccia. La montagna, con le sue stratificazioni calcaree, con quelle ossature bianche che emergono fra i magri sterpi sulle piccole vette, con le sue vallette verdi, sorprendenti di rigoglio, strane conche di frescura entro bordi di pietra, con i suoi crepacci, le sue spelonche, e gl'imprevisti aspetti pieni di una tagliente arditezza, ricorda un po' la montagna di Derna.

      La natura offre alla difesa delle formidabili posizioni naturali, completate e fortificate con un assiduo lavoro. Il nemico si annida dietro baluardi di macigno, ai cui approcci si accumulano le difese ausiliarie delle focate petriere e dei reticolati. Se l'Austria ha creduto utile fingersi sorpresa dalla nostra guerra, tutto sul campo di battaglia smentisce la sorpresa, tutto vi dimostra invece una preparazione ben studiata, lunga e paziente. L'abilissima e laboriosa organizzazione tattica del terreno dice come la guerra con l'Italia fosse da gran tempo nei piani austriaci. Soltanto il momento rimaneva da scegliersi. E quello lo abbiamo scelto noi.

      Se non avessimo che degli uomini armati contro di noi, se non ci fossero che delle masse manovranti, come nelle classiche guerre del passato, se il valore, l'ardimento, l'eroismo costituissero ancora i coefficienti massimi e quasi esclusivi della vittoria, noi non saremmo più sull'Isonzo.

      Ma l'eroismo finisce pur sempre con l'imporsi. Esso è una volontà che arriva al furore. Una volontà che gli ostacoli esasperano e rafforzano. Le nostre truppe, avanti alle difficoltà, non hanno che un impulso, quello di slanciarsi.

      Tutto ciò che abbiamo letto di più bello sulla guerra europea, di assalti audaci e veementi, di attacchi alla baionetta attraverso folti reticolati, in una grandine di piombo, non deve più farci invidia. Simili episodi si svolgono normalmente nella nostra guerra. Soldati che non erano mai stati al fuoco hanno trovato semplice e naturale andarci così.

      Al primo urto l'esercito si è comportato come se avesse sempre combattuto e sempre vinto; ha dimostrato un istinto di battaglia, una sapienza spontanea della lotta, una natura guerriera. Possedeva inconsapevolmente virtù militari, che solo la pratica della guerra sembrava dovesse infondere. Gli egoismi naturali degl'individui sono scomparsi, la vita delle persone si è fusa in una vita più grande, ogni uomo si è sentito una molecola nel vasto organismo dell'esercito, una goccia d'acqua nell'onda. Vi è un ardore di tutti, un sentimento di tutti, una passione di tutti, un solo volere, un solo cuore. Si è destata subitamente nell'esercito nuovo l'anima antica, la fiera anima della razza foggiatasi nel fulgore lontano di secoli gloriosi. Vengono da lei queste abilità della guerra nella folla italiana. Questo travolgente desiderio di assalto è un'eredità latina, come la lingua.

      I sistemi della guerra moderna e la natura del terreno ci costringono però ad un'azione paziente, fatta di scatti calcolati e di attese, di colpi improvvisi e di pressioni lente, un'azione studiata, razionale, metodica. Non abbiamo una posizione da prendere: ne abbiamo tante, incatenate su cinquecento chilometri di fronte. E per ognuna è una piccola battaglia, con le sue sorprese, le sue finte, le sue soste, le sue manovre.

      Guardate una carta: l'austriaco avanti a noi è sempre più in alto. Egli tiene l'alta montagna, il nodo alpino, e noi saliamo i contrafforti, conquistando sprone per sprone, declivio per declivio, vetta per vetta. La nostra guerra è un'ascensione. Sempre più su, sempre più su. Ogni combattimento è un gradino che superiamo. Il gradino seguente domina. Il nemico fugge in altezza. Ritirandosi ci sovrasta. Ma che importa? Noi ascendiamo irresistibilmente.

      Nel Carso il nostro attacco s'inerpica ora sulle prime pendici.

      Il duello d'artiglierie prosegue.

      I cannoni austriaci fanno delle salve serrate e poi tacciono. Forse hanno poche munizioni; forse temono di scoprirsi. Cambiano spesso il loro obbiettivo. Non fanno quasi mai un fuoco di ricerca, di assaggio, di esplorazione. Colpiscono raramente e con magri risultati, ma si vede bene che sanno sempre dove tirano e contro quale bersaglio. Non esitano. Cercano di agire a colpo sicuro. Segnali di spie? Abilità di osservatori?

      Ma quando una batteria austriaca è individuata è una batteria silenziata. Un uragano di fuoco piomba su di lei. Allora dietro le spalle delle alture pare avvenga una breve eruzione. Certo è che i cannoni nemici sono astutamente piazzati. Sorge il dubbio che alcuni, dei quali neppure i riflessi della vampa si scorgono nell'oscurità della notte, siano nascosti in caverne.

      La montagna è tutta grotte e baratri sotterranei. Ha labirinti immensi nelle sue viscere; pozzi, cunicoli, gallerie, spelonche, formano un meraviglioso e tenebroso paese di abissi. Vicino a Monfalcone stesso si spalancano antri misteriosi dai quali emana uno spavento leggendario, come la Grotta del Diavolo dove secondo la tradizione si muore di terrore. È possibile che dietro la bocca cespugliata di cavità naturali stiano dei cannoni in agguato, diretti dal comando telefonico di osservatori appiattati sulle vette? Lo sapremo.

      Tutta la vallata echeggia. Su Ronchi, su Monfalcone, delle granate cadono. Le città sono deserte, gli abitanti sono fuggiti in massa verso l'Italia. Sull'arsenale si ergono ancora intatte le alte ciminiere, ma gli edifici sono in rovina. Il lavoro vi si è ostinato fino al giorno quattro.

      I bombardamenti eseguiti dalla nostra flotta avevano già paralizzato il cantiere navale, ma v'era una fabbrica di proiettili di artiglieria, appena impiantata, che non voleva darsi per vinta. Gli austriaci non credevano che la nostra avanzata li sopraffacesse così presto. La loro perseveranza nel mantenere attivi alcuni stabilimenti di Monfalcone dice come si credessero sicuri della difesa dell'Isonzo e dà la misura del nostro successo. La guarnigione fu sorpresa dalle avanguardie italiane, e si salvò a stento inerpicandosi affannosamente oltre la Rocca, inseguita dai nostri che non volevano lasciar presa.

      La città antica, al di là dell'arsenale, così italiana, così veneta con i suoi portici bassi, le sue procuratie dagli archi larghi come quelli di cripte, è vuota, silenziosa, oscura, e qua e là le vecchie case abbandonate, nelle risuonanti viuzze pittoresche, sono sfregiate dalle esplosioni che sforacchiano qualche tetto e ne soffiano via le tegole.

      Per tutta la notte il cannone ha rombato. La più grande violenza delle artiglierie era verso Gorizia. Il cielo palpitava di lampi a settentrione.

      All'alba, delle immense colonne di fumo si scorgono in fondo alla pianura. È il paese di Lucinico che brucia.

      Entriamo ora in un'altra zona delle operazioni. Ci avviciniamo alla strada di Gorizia, cioè al centro della battaglia dell'Isonzo, dove più ferve intensa e vasta la lotta, dove gli austriaci hanno posto le più forti difese, le più possenti e numerose artiglierie, le più solide truppe.

      Le posizioni nel loro insieme sono rapidamente descritte. L'Isonzo scorre in una gola profonda fino a Salcano, cioè quasi fino a Gorizia, e, da lì al mare, mentre alla destra del fiume si apre subitamente l'ampia distesa verde della pianura friulana, alla sua sinistra invece s'erge ancora, quasi senza interruzione, la montagna, ora a picco sull'Isonzo, come a Sagrado, ora discosta diversi chilometri come a Ronchi e Monfalcone. All'occhio, osservando il panorama, al di là del fiume appare tutta una barriera; c'è come una muraglia, che chiude l'orizzonte orientale, sfumando verso l'Adriatico. Le montagne formano per così dire i bastioni di una smisurata fortezza della quale l'Isonzo è il fossato. In qualunque punto del fiume, chi vuol passare si trova di fronte questo baluardo, più o meno accessibile, spesso altissimo, scosceso, imponente.

      Formidabile e semplice, nella sua linea sommaria il piano di difesa austriaco è consistito nella distruzione dei ponti, e nella fortificazione della grande barriera montana con opere di ogni genere, con multiple linee di trinceramenti e con una distribuzione sagace di artiglierie ben nascoste.

      Ma la barriera è spezzata, per dir così, da due valli, per le quali passano le comunicazioni verso

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