Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
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Читать онлайн книгу Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini страница 10
Presso le rovine del ponte bruciato, dove l'antica strada, all'alto della ripa, sembra mozzata da una lama e sporge sul fiume un moncone fra parapetti spezzati, sono le ultime trincee austriache, intorno alle quali il Genio ha accuratamente raccolto in enormi gomitoli il filo di ferro dei reticolati spinosi. Ci sarà utile. In qualche angolo inesplorato si rinvengono ancora certi ramponi di ferro a quattro punte, dei quali gli austriaci si servono forse per ostacolare il passaggio ai cavalli, o per armare fosse da lupo. In qualunque modo si gettino, i ramponi rimangono con una punta eretta, aguzza come un pugnale. Somigliano ai «triboli» che i soldati romani spargevano per ostacolare l'assalto dei nemici, barbari a piedi nudi.
Sotto gli alberi, al bordo della trincea, una sedia, quella povera sedia che compare melanconicamente su tutti i campi di battaglia, che si rinviene abbandonata, sbilenca e triste, ovunque la guerra ha fatto una sosta.
A difesa di questa regione del basso Isonzo gli austriaci hanno trovato un alleato nell'acqua dei canali.
Ai piedi delle alture che sovrastano Gradisca e Monfalcone, scorre un canale creato a scopi d'irrigazione e per usi industriali. Un'alta diga maestosa, lunga quasi mezzo chilometro, chiude l'Isonzo presso il ponte di Sagrado, sul quale passa la strada di Gradisca. L'acqua trattenuta forma un vasto bacino che nutre il canale con una corrente di quasi ventidue metri cubi al secondo. Il livello di questo corso artificiale è più alto della pianura. Spezzando un argine gli austriaci hanno potuto trasformare in paludi vaste plaghe al nord di Ronchi. L'altura di Sant'Elia, che è al di qua del canale, è divenuta una penisoletta, e, fortemente trincerata, ha costituito una posizione avanzata del nemico.
Per alcuni giorni, la zona accessibile alla nostra offensiva si è trovata sensibilmente ristretta dalle acque. Il bollettino ufficiale ha narrato dell'ardimentosa azione di una batteria di obici che, portatasi sulla linea della fanteria, ha battuto in breccia una diga. Era la diga di Sagrado. Sfondata quella barriera, l'acqua non si sarebbe più immessa nel canale e avrebbe ripreso il suo corso normale nel letto dell'Isonzo. Ma prima che per questo audace bombardamento l'inondazione, priva d'alimento, defluisse sgombrando il piano, il nostro attacco si è gettato sulle terre rimaste asciutte, più al sud, e per Monfalcone ha preso piede solidamente sulle prime pendici del Carso, in vista del mare.
L'acqua ci è stata nemica, per tutto. Le piene, fra le gole del medio Isonzo, ci portavano via i ponti; a valle l'inondazione artificiale creava avanti a noi dei laghi, e il canale, che con le sue diramazioni si va ora essiccando, forniva intanto la forza motrice di impianti elettrici dai quali gli austriaci derivavano correnti per rendere fulminatori certi reticolati di trincea.
Ma gli austriaci avevano dimenticato che la magnifica opera idraulica dei canali di Monfalcone è italiana, studiata e compita dalla Società Italiana per le condotte d'acqua, di Milano. La perfetta conoscenza dei lavori ci ha permesso di correre subito ai ripari e di ricondurre le acque ad un contegno più patriottico.
Passiamo l'Isonzo.
Una casa sfondata, un hangar demolito, dei muri bucherellati da schegge di granata: si è già nell'atmosfera del campo di battaglia. Ma nessuna battaglia è passata di qui.
Dei cannoni austriaci di mezzo calibro, nascosti sulle alture di Doberdò, tirano sulla strada, e sui villaggi, e sui ponti. Otto o dieci colpi per volta, poi, per due o tre ore non si fanno più vivi. Non combattono, stanno lassù in agguato, e quando vedono in una scìa di polverone un convoglio di munizioni che si avvicina, o un reparto di truppa che si sposta, o un'automobile che corre, giù un po' di grossi shrapnells o di granate, che arrivano con quel loro rombo di motore mal regolato e scoppiano fragorosamente sulla pianura quieta. Tirano persino sulle motociclette col side-car, nella speranza di accoppare qualche generale.
Ma hanno paura di essere scoperti. Non insistono mai, e non è facile individuarli. Conoscono così bene la regione, che il loro tiro è giusto, sebbene inefficace. Percorrendo la strada con dei carreggi si ha la probabilità di assistere allo scoppio di una granata a sessanta passi di distanza. I soldati non ci badano.
No, i nostri soldati sono meravigliosi. Appena una granata scoppia, si vedono i soldati correre, ma verso lo scoppio. Vanno a vedere il buco. Hanno una curiosità da ragazzi per i fuochi d'artificio. Compà, sente mò — grida allegramente un soldato di guardia al ponte ad un compaesano mentre tuona una raffica — pare 'a festa d'a Madonna! — Gli sembra di sentire i mortaretti delle solennità campagnole. Ed il cratere slabbrato, nero, fumante, che le esplosioni scavano al suolo, è per loro uno spettacolo curioso che li attira. Sono là intorno, aggruppati allo scoperto, incuranti del nemico che li vede, disputandosi le schegge che scottano ancora. Ogni soldato ne ha una in tasca.
Sulla strada così esposta il movimento continua regolarmente. I territoriali divenuti carrettieri e bovari, passano anche loro con i birocci e le mandrie.
Nessuno esita, nessuno si ferma, nessuno devia.
Un distaccamento di bersaglieri ciclisti riposa all'ombra delle casupole, all'entrata di un villaggio: Begliano. Appoggiate ai muri, le biciclette intrecciano ruote e telai in una confusione sottile e geometrica di circoli e di linee; qualche motociclista prova attentamente il motore, che strepita sul cavalletto; i soldati, accoccolati a gruppi sui macigni, conversano placidamente, fumano, fischiettano, e sulle loro teste l'alito caldo e lieve del meriggio fa correre un fremito di piume nere. Gli ufficiali, che hanno trovato delle sedie in una osteria abbandonata, siedono fuori della porta, sotto a degli alberi. Aspettano ordini. Vi è una serenità, una tranquillità da riposo durante la manovra. Non si direbbe mai che questi soldati si sono battuti di notte e di giorno, che hanno preso delle trincee alla baionetta, sopraffacendo gli austriaci con le mani alla gola.
Il centro della strada è deserto. Da lì si vedono le colline rocciose di Doberdò così vicine che sembrano a portata di voce. «Tra poco ricomincia la musica!» — osserva un ufficiale guardando l'orologio al polso, e appoggiata la spalliera della sedia al muro incrocia le gambe, beatamente, soggiungendo: «Ci fosse almeno un giornale da leggere!».
La musica lì si ripete ad intervalli regolari. Il villaggio è bombardato a orario. Le ultime granate hanno ferito qualche soldato, uno è morto. Da un giardinetto sbuca un bersagliere che ha composto un mazzo di fiori, adorno di una foglia di palma di San Pietro, la palma del nord. Lo mostra ai compagni, che approvano, e scompare in un recinto. È per ornarne la croce sulla tomba nuova.
Ecco, un rimbombo, un urlo apocalittico che solca la serenità del cielo, una esplosione potente, uno scrosciare di tegole e di macerie. La musica.
I bersaglieri, senza scomporsi, guardano in aria. «Dev'essere cascata sulla chiesa!» — dice uno. «Tireranno al campanile!» — osserva un altro. «Questa è cascata qui dietro». — «Ha tremato il muro».... Ma un comando interrompe i dialoghi. Un ordine è arrivato. Si parte.
In un batter d'occhio tutti sono pronti, appoggiati alle biciclette. Si fa rapidamente l'appello. Manca uno. Era là adesso. Chiamatelo. Eccolo che arriva, di corsa, tutto sporco di calcinaccio. «Signor tenente — esclama — è morta la capretta!». C'era una capretta abbandonata nel villaggio, alla quale i soldati avevano munto una bella gamella di latte. «È stata l'ultima bomba — informa il soldato — ero lì vicino, povera bestia! — e dopo un istante di riflessione: — Peccato che sia troppo dura a mangiarsi!».
Via! Con un volteggio elegante ogni soldato inforca la sua macchina e sospeso sul sottile scorcio delle ruote fila nel candore della strada sollevando una bassa scìa di polvere. La compagnia scorre ordinata, silenziosa, veloce, tutta grigia, nella direzione del nemico.
I fucili