Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini страница 7
L'antica, la vergognosa frontiera era cancellata.
Più faticosa, ma egualmente esatta fu l'avanzata sui monti. Fuori di ogni strada, fuori d'ogni sentiero, portando nel pesante zaino viveri e munizioni per lunghi giorni, portando sulle spalle anche la legna per cuocere il rancio, anche la paglia per dormirvi sopra, i nostri atletici alpini, coadiuvati in alcuni punti da bersaglieri, da militi della Finanza, esploratori arditi e infaticabili, andarono avanti da vetta a vetta.
Hanno la tattica dell'aquila. Vanno da una cima all'altra, da una punta all'altra. Si annidano sulle sommità, e non c'è forza che potrebbe sloggiarli. Non temono l'isolamento. Fanno di ogni vetta occupata una fortezza inespugnabile. S'inerpicano, s'insediano, si trincerano, e per le valli che essi dominano il grosso marcia al sicuro e si sgrana come un formicaio.
Si videro le cime austriache coronate da loro, una dopo l'altra: il Monte Corada, il Monte Cuk sulle creste del Colovrat. Sul profilo di posizioni altissime, che si supponevano fortemente protette, al di sopra della gran coltre dei boschi, si scorse dopo mezzogiorno il brulicare delle nostre avanguardie. Subito, al primo giorno, ci insediammo in faccia alle fortificazioni nemiche.
Avanzando sulla pianura, le nostre truppe scacciarono avanti a loro i piccoli nuclei austriaci, che abbandonarono in fuga i loro barricamenti, le trincee di arresto, le abbattute d'alberi, tutte le difese preparate all'entrata dei villaggi e ai punti favorevoli. Ritirandosi il nemico faceva saltare i ponti. Le avanguardie italiane vedevano brillare le mine, una vampa, un getto di macerie, una colonna di fumo e di polvere, e le detonazioni spandevano il loro rombo sinistro. Anche un ponte dei più importanti per l'azione era minato, quello sullo Judrio, ma il precipitarsi dei nostri esploratori lo salvò. Era il ponte di confine.
È un ponte di legno, pittoresco, angusto e lungo, che le sponde alte sovrastano chiudendolo come fra due muri di verdura. Per risalire facilmente la riva, le batterie lo passavano al galoppo. I cavalli sferzati si slanciavano, e in un grido impetuoso di «Viva l'Italia!», in uno scalpitìo pesante sul tavolato che tremava tutto, in un tuonare di ruote, in un frastuono d'acciaio, i cannoni sì avventavano.
Passate le prime truppe i segni della frontiera scomparvero. Una forza sovrumana divelse i pali gialli e neri, saldati a macigni, spezzò le aquile di ferro che in cima ad ogni palo aprivano le loro ali araldiche e biforcavano la loro duplice testa coronata. Non c'è più niente. Dei frammenti calpestati e informi. Un furore d'uragano è passato. Nulla lo avrebbe trattenuto.
In varie zone montuose, come sull'altipiano di Asiago, le nostre truppe avanzarono, in quel primo giorno, sotto al fuoco di grosse artiglierie da fortezza. Non si vide un'esitazione. Quei soldati nuovi al combattimento salutavano le esplosioni con esclamazioni ironiche. E andavano avanti.
Le operazioni di quel primo giorno, i bollettini dello Stato Maggiore l'hanno detto, non furono che una correzione di fronte, la quale, contrariamente al senso del linguaggio ufficiale dei nostri nemici, si operava in avanti. Ma il fuoco che allora si accese nell'anima italiana non si estingue più, perchè non è un fuoco nuovo. C'è stato sempre, noi ne sentivamo il tepore sotto la cenere. Un soffio sublime ha dissipato le scorie e la gran fiamma s'è levata e ondeggia alta. Tutta la frontiera ne divampa. Abbiamo una troppo grande eredità di eroismo e di gloria per non ritrovarla intera nell'ora inebbriante della nostra lotta più santa contro l'eterno oppressore.
No, eterno no! Lo scampanìo delle chiese friulane suonava i primi rintocchi del suo funerale.
Ho narrato del primo giorno, del primo slancio, perchè il resto deve rimanere ancora segreto. Ma v'è lo stesso cuore di quell'ora di delirio. Con lo stesso lieto entusiasmo il nostro esercito schiaccia i forti corazzati del nemico, assalta e conquista di colpo delle ridotte avanzate, si spinge con felice sapienza, con audacia paziente, fin sopra a delle trincee blindate.
Dove non si va con quest'anima?
VERSO L'ISONZO.
19 giugno.
È per la strada maestra che questa volta mi avvicino alla guerra. Nelle regioni della frontiera — diciamo dell'antica frontiera perchè la nuova cammina — la ferrovia, tutta intenta a trasportare soldati e munizioni, lascia i viaggiatori sui binarî morti. E ve li dimentica. Nelle piccole linee i treni per il pubblico ritardano in media dodici ore nei primi quaranta chilometri. Uno solo, che io sappia, è arrivato in perfetto orario: partito da Udine si è trovato a San Giorgio di Nogaro all'ora indicata. Ma era il giorno dopo. Così la strada maestra è ritornata in onore.
Da quando fu inventata la locomotiva non aveva visto più tanto traffico. Vi passa tutto il commercio della provincia, tutto il movimento dei mercati e delle fiere. Perchè non un mercato è stato sospeso, e a Treviso, a Portogruaro, a Latisana, a Oderzo, in piena zona di guerra, le piazze antiche e pittoresche si affollano al mattino di venditori e compratori venuti dalla campagna, i merciaiuoli ambulanti erigono le loro baracche, e tutto si passa come in piena pace.
Sulle magnifiche strade, che sembrano viali di parchi, ombrate da vecchi platani rigogliosi allineati sui bordi, è un viavai di carri, di carrette, di biroccini, che s'incontrano con lunghe file di autocarri pesanti e grigi del servizio militare. Stupisce e rallegra la serena attività del paese, la quieta normalità che permane anche nelle regioni che odono il rombo del cannone.
La guerra non ha mutato nulla, non ha toccato nulla. Ricordo la tragica sospensione di ogni vita negli altri paesi belligeranti quando il grande conflitto s'iniziò. Si vedevano i segni del lavoro subitamente interrotto sulla campagna francese divenuta deserta, si sentiva l'allarmi, la paralisi, l'angoscia della nazione intera, i villaggi solitari avevano un'espressione desolata, e, cessato ogni commercio, le città costernate tacevano, con le vie quasi vuote fra i negozi chiusi.
Uno straniero che arrivasse fra noi ignaro (per un'ipotesi fantastica) degli eventi, non sentirebbe la guerra nella vita intensa delle nostre città e nella tranquilla operosità dei nostri campi, non si accorgerebbe che stiamo combattendo la più grande lotta della nostra esistenza nazionale.
La guerra ci ha trovati pronti, e niente altro che l'immutata fisionomia della nazione, mentre milioni d'italiani si battono, è già una grande prova di potenza.
Nei vigneti e nei frutteti si lavora, e dalla campagna luminosa, che non è mai sembrata così bella, così folta di vigore, così promettente, scolorata qua e là dal primo imbiondire delle messi, arrivano nella serenità ardente del meriggio i canti dei contadini all'opera, le antiche canzoni dei campi, semplici, larghe e solenni come preghiere.
L'automobile che mi porta fila nella immensa pianura friulana, attraversa ponti custoditi da sentinelle, passa per stazioni di tappa insediate nelle piccole città, affollate di carreggi, intorno alle quali si allargano bivacchi nereggianti di cavalli e parchi automobilistici.
Impossibile deviare dalla via buona. Oltre alle tabelle militari, che, affisse ad ogni crocicchio, dicono ufficialmente la giusta direzione, si trovano indicazioni di tutti i generi, consigli diversi sotto forma di «vedi mano». L'entusiasmo degli abitanti ha spennellato sui muri dei paesi delle grandi frecce accompagnate da diciture sommarie e definitive: «Per Trieste!» — « — Di qui per Monfalcone, Trieste e sempre avanti!» — e non si può sbagliare. Più di un paesello ha già battezzato Via di Trieste,