Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini
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Il paese ha ripreso un'aria tranquilla e sonnolenta, e i convogli militari passano con frastuono per le strade antiche, anguste ed affocate, fiorite di bandiere. Al di là, verso l'Isonzo, un polverone denso annebbia la pianura. Il cannoneggiamento è più vicino. Nell'aria limpida, chiaro, metallico, diafano, un pallone frenato si libra.
Ancora pochi minuti, e ci troviamo fra le truppe. Dei reparti passano il fiume. Sulle alture di Monfalcone la battaglia rugge.
La nostra prima avanzata, che qui giunse d'un balzo a pochi chilometri dall'Isonzo, non fece in tempo a salvare i ponti. La loro distruzione era forse inevitabile.
Il ponte della strada carrozzabile, lungo più di cinquecento metri, tutto di legno, ma largo e solido, ha bruciato completamente. Vedevamo da Palmanova e da Cormòns, il giorno 24, le colonne turbinose di fumo di questo incendio lontano, e pareva che una città ardesse. Si credette anzi, al primo momento, che gli austriaci avessero appiccato il fuoco a dei paesi, per vendetta.
Dei piloni, formati da fasci di travi, non rimangono che alcuni mozziconi carbonizzati, emergenti ad intervalli regolari dall'acqua azzurrognola e dalla ghiaia bianca, sull'immensa spianata del vasto letto. Tutto il resto è scomparso. Le piene ne hanno cancellato ogni vestigio.
Il ponte della ferrovia, poco discosto, è stato minato, e l'armatura d'acciaio, ricaduta sulle macerie dei piloni crollati, disegna sullo sfondo luminoso del fiume come una trina nera, a larghe centine, spezzata nel mezzo, lacerata e scomposta. Queste rovine dànno la prima sensazione profonda di un paesaggio di guerra.
Gli austriaci avevano cominciato a preparare delle forti difese sulla riva destra. Non si trattava più di barricate frettolose. Lunghe, solide, massicce trincee, dei larghi terrapieni che sembrano dighe, i quali emergono freschi, del colore di terra smossa, al di qua della boscaglia che fiancheggia il fiume e gli fa come una scorta di verde, indicano l'intenzione di fortificare solidamente il passaggio, di creare anche lì una testa di ponte. La rapidità della nostra mossa iniziale ha ricacciato il nemico sull'altra sponda. Ritirandosi, gli austriaci hanno anche distrutto, con delle mine, un pezzo di strada, all'approccio del ponte.
Ma bisognava passare, e siamo passati.
Le riparazioni della strada, i preparativi per il varco del fiume, sono stati compiuti sotto ad un fuoco intermittente di artiglieria, al quale rispondevano i nostri cannoni appostati sulla pianura. Qui, la truppa di questo settore fece la prima conoscenza col bombardamento nemico.
Il bombardamento nemico fu accolto con una indifferenza umiliante. La fanteria, inoperosa nelle sue trincee, conversava sotto gli shrapnells, e il chiacchierìo si sentiva da lontano. Sul bordo d'un fosso, file di soldati inginocchiati lavavano la loro biancheria, cantando a squarciagola.
Una sera, quando tutto è stato pronto, è scoppiato un inferno.
Dopo il tramonto, ad un tratto centinaia di cannoni nostri hanno aperto improvvisamente un fuoco serrato sulla riva sinistra dell'Isonzo, spazzandola a tiri progressivi. Ogni batteria aveva la sua zona da coprire di proiettili. Gli shrapnells arrivavano a stormi sul bordo dell'acqua, sulle sabbie della sponda, sui roveti, sulla boscaglia di salici e di pioppi entro la quale la fanteria austriaca veniva ad annidarsi di notte schioppettando a intermittenza, e più in là l'uragano di acciaio e di piombo batteva i vigneti, tempestava le strade, esplorava la pianura in ogni ripiego. Era uno spettacolo terribile. I balenii dei colpi e delle esplosioni illuminavano la notte di una tremula luce violastra, e sulle nostre truppe la veemente moltitudine delle traiettorie formava una vôlta sonora, una vôlta ululante.
Alle nove precise, silenzio.
L'Isonzo ha qui due corsi d'acqua, vicini alle due rive, e nel mezzo, fra l'uno e l'altro, la vasta distesa di ghiaia. Durante il bombardamento che immobilizzava il nemico, il ramo più vicino fu rapidamente passato a guado: è basso e con poca corrente. Nel lampeggiamento delle cannonate si vide un formicolìo nero e silenzioso di truppe traversare la spianata sassosa del letto e portarsi sul corso più profondo trasportando il materiale necessario alla costruzione di zattere.
Quando l'artiglieria tacque, all'ora stabilita, nella quiete improvvisa pesava l'emozione di una grande attesa. Zattere piene di soldati vogavano nel buio. Le prime compagnie si gettavano sulla sponda sinistra occupandola. Altre forze si aggiungevano a loro. L'occupazione si allargava. Si formava solidamente una testa di ponte. Per il passaggio del grosso, intanto, il Genio lavorava alacremente a costruire solide passerelle. Una ordinata e febbrile attività da cantiere attraversava il fiume.
Ogni tanto due, tre lampi vividi, delle esplosioni: cannonate austriache. La fucileria crepitava ad intervalli, dominata dallo scoppiettìo regolare delle mitragliatrici: era la linea della nostra occupazione che avanzava, sloggiando piccoli reparti austriaci dalle loro trincee. Se si ostinavano, era l'assalto.
Si udiva allora echeggiare alto, intenso, entusiasmante, l'urlo trionfale: Savoia! Passava nella notte il grido tempestoso che faceva battere i cuori dell'esercito in attesa. S'indovinavano gli episodi dell'occupazione nel risveglio del fuoco e nel levarsi delle voci. Verso la metà della notte si è capito che gli austriaci contrattaccavano. Ma si è pure capito subito che erano ricacciati. L'oscurità è stata per un istante tutta piena di un eloquente vocìo di vittoria.
Pochissimi feriti. Dei soldati sono tornati indietro con le mani lacerate dai fili di ferro dei reticolati che essi avevano strappati. All'alba le nostre colonne passavano serrate l'Isonzo sui tavolati nuovi e risuonanti, e i tentacoli delle avanguardie avanzavano già verso le alture di Monfalcone.
Sono le riserve che passano adesso.
AI PIEDI DEL CARSO.
20 giugno.
Nel polverone denso, che incanutisce le siepi e incipria i pampini, sulla strada bianca, affocata, accecante, uomini, cavalli, veicoli si muovono come in una nebbia ardente, e sembrano ombre.
I soldati, già abbronzati dal sole, con quella fisionomia invigorita e fiera che è data dalla sana fatica del campo, marciano in silenzio, ordinati, un fazzoletto intorno al collo. Alt! Zaino a terra! Col peso dello zaino pare che essi depositino la stanchezza; conversazioni e risate si levano improvvise. È un vocìo allegro da scolaresca.
Largo! largo! — con uno scalpitìo serrato, con un rombo pesante di ruote massicce, con un frastuono metallico, delle batterie passano lentamente come in un fumo d'incendio. Al passo dei forti cavalli normanni le grigie macchine da guerra, che non somigliano più che vagamente agli antichi cannoni, procedono in una solennità formidabile. La fine della colonna si perde nei nembi della polvere. Delle automobili dello Stato Maggiore si aprono un varco fra tanti ostacoli, e filano verso il fiume.
Là la strada cessa, il polverone si dissipa, e nell'aria tersa si profilano lontano le pendici del Carso nude, grigiastre. Dalle vegetazioni della piana emergono chiari e aguzzi i campanili dei villaggi come fari sopra un mare.
Sulle passerelle che sostituiscono il ponte distrutto le colonne si assottigliano e si sgranano, i cannoni ed i cassoni si spaziano per superare con una galoppata l'ostacolo delle ghiaie. I conducenti scendono di sella e corrono a piedi, schioccando la frusta, aggrampati alle