Al fronte (maggio-ottobre 1915). Luigi Barzini

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Al fronte (maggio-ottobre 1915) - Luigi Barzini

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di artiglieria pesanti, già preparati, dominavano tutti i nostri vecchi forti. Ad ogni nodo di viabilità, caserme nuove, ospedali, depositi di munizioni, di viveri, di carri, di slitte, panifici elettrici capaci di nutrire intere divisioni. Si era pensato persino all'acqua sulle strade della montagna, dove ogni due o tre chilometri mormora una fonte per la beverata. Vasti campi trincerati erano pronti. Nelle più selvagge vallate potrebbero ora vivere, spostarsi e agire masse di armati. Persino sulle più alte cime, sulle rocce nude, sulle distese candide dei ghiacciai, capanne, ricoveri, rifugi alpini, alberghi, costruiti apparentemente per un improvviso furore sportivo, si sono rivelati ora per posti di vedetta, basi di avanguardie, caserme, tutto un sistema di edificî eretti in posizioni strategiche, destinati a mantenere in ogni stagione il dominio dell'alta montagna.

      La Nazione ignorava la realtà nelle sue vere proporzioni, quella realtà che angosciava le autorità militari, l'allarme delle quali non trovava che una mediocre e saltuaria attenzione nell'ambiente politico. I piani della difesa si fondavano sull'abbandono di vaste zone. La frontiera era indifendibile nella sua integrità. Era fatalmente ammesso che l'invasione entrasse. Ora la catena delle nostre posizioni ha anche un grande valore di difesa. La guerra ci ha dato una tranquillità nuova.

      Le zone più vulnerabili erano la sponda meridionale del Garda e la pianura di Vicenza. Fra l'Idro e il Garda la frontiera si spingeva per la valle Toscolana ad una sola giornata di marcia da una delle nostre massime arterie di comunicazione, la ferrovia Milano-Venezia. La possibilità di un colpo di mano austriaco contro il grande viadotto di Desenzano è stata considerata e discussa durante la pace dallo stato maggiore italiano. Si sono fatte persino delle esperienze; reparti alpini hanno percorso di notte, a marcia forzata, la distanza che separa la frontiera dal viadotto. Un colpo di mano sarebbe forse stato di difficile esecuzione, ma la debolezza delle nostre posizioni contro all'impeto insistente di una offensiva appariva in una terribile evidenza. Adesso una offensiva troverebbe una solida barriera sulla valle del Ledro e sulla valle Daona; lo sbocco della Giudicaria è chiuso.

      Arsiero era anche ad un giorno di marcia dalla frontiera, e Arsiero è la soglia della piana vicentina. L'Austria aveva preparato accuratamente il forzamento rapido di tutti i passi, dal Friuli al Trentino, minacciava una irruzione irrefrenabile sullo Judrio, sul Fella, sul Tagliamento, sul Piave, sul Brenta, sull'Adige, ma è sopra tutto per le valli che fiancheggiano l'altipiano dei Sette Comuni che il pericolo dell'invasione austriaca si affacciava più impellente, perchè più vicino alla mèta. La frontiera metteva l'offensiva austriaca in posizioni che, con dei confini meno iniqui, essa non avrebbe potuto raggiungere se non dopo lunghe lotte accanite, fortunate e definitive. Cioè, la frontiera, qui più che altrove, equivaleva per l'Austria ad una guerra già quasi vinta. Parlando della Vallarsa e della Valsugana le corrispondenze dalla fronte hanno descritto che cosa l'Austria aveva saputo accumulare di opere militari lì intorno; erano nuclei di forti moderni, centinaia di chilometri di nuove strade, ampie basi di operazione. La famosa questione sul possesso della Cima Dodici era legata a questo sistema di sfondamento.

      La lunga lotta di grosse artiglierie sull'altipiano di Asiago, di cui così spesso parlarono i bollettini ufficiali, la distruzione dei forti di Luserna, di Busa Verle, di Spitz Verle, la presa del monte Pasubio, dominante la Vallarsa e la Val Pòsina, la presa del Civaron, dell'Armentera, del Salubio, in Valsugana, e l'azione attuale sugli altipiani di Lavarone e di Folgaria, sono tutte fasi della nostra opera ardita e incessante di consolidamento, di arginatura, di chiusura. Le posizioni che ci minacciavano sono nelle nostre mani, con le loro strade militari, le loro basi, i loro appostamenti. Siamo noi che battiamo al di là e portiamo la minaccia su Rovereto e verso Trento.

      Anche la questione di uno sfondamento delle nostre difese verso Arsiero era di quelle che durante la pace angosciavano lo stato maggiore italiano. Delle manovre parziali erano state più volte eseguite per studiare la possibilità di impadronirsi rapidamente del Pasubio, il cui possesso avrebbe solo potuto consolidare la difesa sopra un importante settore. I resultati delle manovre erano scoraggianti. Quella alta montagna, il cui declivio era italiano e la cui vetta era austriaca, appariva inespugnabile. Ed è stata conquistata, e su di lei è imperniata la nostra fortunata azione iniziale.

      L'Austria non ha fatto in tempo a difendere efficacemente il Pasubio, come non ha fatto in tempo a difendere l'Altissimo, e il Corada, e il Quarino, e il Medea, e tanti altri monti e passi e selle e varchi, sui quali si è insediata fulmineamente la nostra fronte, solidificandosi. Non è stata sorpresa dalla guerra l'Austria, oh no!, ma è stata sorpresa dalla rapidità del movimento.

      Non si aspettava il balzo immediato in avanti, che ha portato subito la guerra sulle sue seconde linee. Ha sbagliato i calcoli del tempo, ha commesso un errore di quindici giorni — errore che poi le inondazioni e le piene immobilizzandoci hanno in parte corretto. L'Austria si basava sui dati da lei conosciuti della nostra organizzazione militare, per concludere che la nostra mobilizzazione e la concentrazione del nostro esercito necessitavano un mese di tempo. Questa almeno era l'opinione più volte espressa dallo stato maggiore austriaco. Sapendo che la mobilizzazione era già in corso col sistema delle chiamate personali, l'Austria credè di essere nel giusto riducendo il tempo della metà. Alla dichiarazione di guerra suppose che le operazioni attive sarebbero cominciate verso il sette di giugno. A dire il vero, il calcolo non era del tutto errato; senonchè noi ci muovemmo audacemente in piena mobilizzazione, concentrando e completando i corpi in azione, organizzando i servizi nella mutabilità di spostamenti impreveduti.

      Così fu possibile strappare alla sorte vantaggi immediati che una lotta eroica, ardente, aspra e ostinata è andata poi ampliando e rassodando, in un progresso lento ma costante, contro gli ostacoli più formidabili che siano stati mai superati in una guerra. E per la forza delle armi l'Italia ha liberato le sue soglie invase e puntellato le sue opere minacciate. Si respira.

      Ma un esame dei risultati delle operazioni italiane sarebbe incompleto se non si considerasse l'importanza che la nostra guerra ha avuto ed ha nel conflitto internazionale, la somma che essa rappresenta nell'attivo dell'Intesa. Non si misura l'entità del contributo dato per il trionfo finale della nostra causa comune, la causa della Libertà dei popoli, dalle distanze percorse ma dagli effetti e dalla intensità dello sforzo. Se così non fosse, si dovrebbe concludere che la Francia non ha fatto nulla, poichè il suo fronte è rimasto quasi immobile sul territorio francese, e che la Russia perdendo terreno è diventata una passività nella lotta. Anche l'immobilità assoluta potrebbe avere un valore per conseguenze lontane, su altri fronti.

      Quando ai primi di settembre la controffensiva russa ha strappato settantamila prigionieri agli eserciti nemici e fermato momentaneamente i loro progressi, il ministro della guerra russo, stringendo la mano dell'attaché militare italiano che si congratulava con lui, gli avrebbe detto effusamente: «Grazie, grazie, il successo è anche vostro!» Ed era realmente anche nostro. La vittoria delineandosi in qualsiasi punto dell'immane conflitto porterebbe al raggiungimento degli obbiettivi speciali di ogni singola lotta.

      Quale influenza non ha avuto la nostra guerra nella salvezza dell'esercito russo? Gli Imperi centrali avevano preparato contro la fronte orientale una offensiva destinata a schiacciare la Russia, a costringerla alla pace, ad eliminarla dal conflitto, per definire poi la guerra rapidamente sulla fronte occidentale. Fin dal marzo scorso a Bruxelles si udivano degli ufficiali dello stato maggiore tedesco prevedere per il giugno la pace generale, la pace germanica. Erano sicuri dell'annientamento degli eserciti dello Zar. Tutto era studiato, tutto era previsto, il piano di azione gigantesco, apparentemente irresistibile.

      Non diciamo che il piano sarebbe riuscito, se, mentre esso era in pieno sviluppo, l'Italia non fosse entrata in guerra, richiamando imperiosamente forze ingenti dal centro e dall'ala destra degli eserciti austro-tedeschi; ma non è temerario affermare di aver contribuito a dissipare quella disfatta che ha sfiorato l'eroica Russia, che è stata così vicina, così imminente, che è stata la nostra angoscia per un mese, e che avrebbe forse portato con sè la catastrofe del mondo latino e la schiavitù dell'Europa.

      La Russia ha arginato l'avanzata nemica,

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