La vita intima e la vita nomade in Oriente. Belgioioso Cristina

Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу La vita intima e la vita nomade in Oriente - Belgioioso Cristina страница 6

La vita intima e la vita nomade in Oriente - Belgioioso Cristina

Скачать книгу

sofferto dall'artiglieria del Sultano. La mia guida ravvisava spesso nei vecchi contadini che incontravamo lungo la strada dei compagni di Mussa bey; egli mi parlava della propria captività, delle sofferenze da lui sopportate, dello stato misero al quale era ridotto. Infine al nostro arrivo a Bajandur, ove presi alloggio in casa del Direttore delle poste, che era a sua volta un cognato di Mussa, il mio giovine compagno si accomiatò da me: ritornava al suo piccolo villaggio appollajato in cima ad un'alta montagna come il nido di un uccello di rapina. Seguii a lungo cogli occhi quel giovine, nato alla lotta e ristretto precocemente in una vita di ozio senza gloria. Triste spettacolo quello del fiero montanaro che su una cavalla curda, magra e gracile, seguiva faticosamente le svolte della strada. Gli abiti del giovine cavaliere contradicevano del resto a ciò ch'egli mi aveva detto della sua povertà: il suo turbante verde, il suo ricco mantello d'Aleppo, in lana bianca intessuta d'oro e d'argento, annunciavano in lui il discendente di una nobile schiatta. Per un istante mi dolsi di non avere il pennello di Decamps[5] per fissare sulla tela quella figura fiera e selvaggia.

      Non saprei dir nulla di Bajandur; ma a Scerkess[6] ove mi fermai la mattina seguente, incontrai un tipo della società orientale che contrastava in modo caratteristico con quello del mio compagno del giorno innanzi. È per mezzo de' miei ospiti che vorrei far conoscere l'Oriente. La vita domestica è uno degli aspetti meno conosciuti della civiltà mussulmana, uno di quelli che ho potuto meglio studiare.

      A Scerkess scesi da un muftì[7] che avevo guarito qualche mese prima d'una febbre intermittente, e che m'aspettava a braccia aperte. Si è tanto parlato dell'ospitalità orientale, che m'asterrei volontieri d'intavolare questo discorso, se parlandone molto non se ne fosse parlato assai male. Ho letto, per esempio, dei racconti di viaggio in cui gli autori cantavano le lodi dell'ospitalità dei Turcomani[8], mentre io ho sempre riconosciuta l'origine turcomana della popolazione d'un villaggio dal miserando ricevimento che mi si faceva. Del resto si accetta come seria offerta d'ospitalità qualunque complimento indirizzato da un indigeno ad un forestiero senza pensare agli strani equivoci che produrrebbe da noi un'interpretazione troppo letterale di certe formule della cortesia europea. Il fatto è che, di tutte le virtù tenute in conto nella società cristiana, l'ospitalità è la sola che i mussulmani si credano in obbligo di praticare. Là dove i doveri sono poco numerosi, essi sono maggiormente rispettati, cosa del resto perfettamente naturale. Gli orientali hanno dunque preso sul serio questa sola ed unica virtù, questo vincolo isolato ch'essi hanno consentito ad imporsi. Sventuratamente una virtù che si appaga di apparenze è esposta ad alterarsi ben presto. E questo è appunto ciò che è accaduto, è ciò che accade giornalmente nell'ospitalità orientale. Un mussulmano non si consolerà mai d'aver mancato alle leggi dell'ospitalità. Entrate in casa sua, pregatelo d'uscirne, lasciatelo esposto alla pioggia, al sole alla porta del suo stesso alloggio, devastate la sua dispensa, esaurite pure le sue provviste di caffè e d'acquavite, rovesciate in ogni senso i suoi tappeti, i suoi materassi, i suoi cuscini, spezzate il suo vasellame, inforcate i suoi cavalli e rendeteli esausti, se tale è il vostro capriccio. Il mussulmano non vi indirizzerà un solo rimprovero perchè voi siete «un muzafir» un ospite: è Dio stesso che vi ha inviato e qualunque cosa voi facciate siete e sarete sempre il benvenuto. Tutto ciò è ammirevole; ma, se un mussulmano trova modo di sembrare altrettanto ospitale quanto è richiesto dalle leggi e dai costumi, senza sacrificare un centesimo od anche guadagnando una grossa somma di denaro, al diavolo la virtù, evviva l'ipocrisia! È ciò che accade novantanove volte su cento. L'ospite vi ricolma di cortesie mentre soggiornate in casa sua; poi, se alla vostra partenza non gli pagate venti volte il valore di ciò che vi ha dato, aspetterà bensì che siate uscito dalla sua casa, che abbiate deposto quindi il vostro sacro carattere di «muzafir», ma poi vi getterà delle pietre.

      Naturalmente voglio parlare della moltitudine volgare, e non dei cuori semplici e buoni che amano il bene perchè lo trovano amabile e che nella pratica della virtù procurano a sè stessi un'intima gioja. Il mio vecchio mufti di Scerkess può entrare in questo numero. La sua casa è costituita, come quella di tutte le buone famiglie del Levante, da un corpo di fabbrica riservato alle donne e ai bambini, di un padiglione esterno, con un salone d'estate ed uno d'inverno e finalmente di qualche camera per i domestici. Il salotto d'inverno è una bella camera riscaldata da un buon camino, coperta da grossi tappeti ed abbastanza ben mobiliata da divani ricoperti in stoffe di seta e lana e distribuiti tutt'intorno. L'arredamento della sala d'estate consiste in una fontana che sorge nel mezzo della stanza, alla quale si accostano, occorrendo, cuscini e materassi per sedersi e sdrajarsi. Del resto non si vedono nè finestre, nè porte e l'esterno non è separato dall'interno dalla menoma barriera. Il mio vecchio mufti, che ha novant'anni, possiede parecchie mogli, la più vecchia di soli trent'anni ed ha figli di tutte le età, da un marmocchio di sei mesi ad un uomo di sessant'anni. Egli professa una ripugnanza di buon gusto per il frastuono, il disordine e la sudiceria dell'harem. Vi si reca durante la giornata, come va a vedere ed ammirare i suoi cavalli in scuderia; ma abita e dorme, secondo la stagione, nell'uno o nell'altro de' suoi salotti. Quell'uomo eccellente comprese che, se non aveva potuto adattarsi con una lunga abitudine agli inconvenienti dell'harem, ben peggio doveva essere per me, recentemente sbarcata da quella terra di raffinatezze incantevoli che qui si chiama il «Franguistan». Mi dichiarò dunque subito che non mi confinerebbe in quel luogo oscuro e confuso, male odorante e fumoso che si chiama l'harem, e mi offerse il suo appartamento che accettai con gratitudine. Dal canto suo si insediò nella sua sala d'estate, preferendo, anche alla fine di gennaio e mentre la neve ricopriva città e campagne, la sua fontana ghiacciata, col pavimento umido e tutte le correnti d'aria, all'atmosfera calda ma fetida dell'harem.

      Temo di distruggere qualche illusione quando parlo degli harem con così scarso rispetto. Avendo letto le descrizioni che ce ne danno le «Mille e una notte» ed altri racconti orientali, udendo che quei luoghi sono il soggiorno della bellezza e degli amori, siamo autorizzati a credere che le descrizioni letterarie, sieno pure esagerate, abbiano un fondamento nella realtà e che in quei misteriosi rifugi debbano trovarsi riunite tutte le meraviglie del lusso, dell'arte e della più sontuosa voluttà. Quanto siamo lontani dal vero! Immaginatevi dei muri anneriti e screpolati, dei soffitti in legno con fenditure, polvere e ragnatele, dei divani stracciati ed unti, delle portiere strappate, macchie di cera e di olio in ogni angolo.

      Tale spettacolo era urtante per me, poichè entravo per la prima volta in luoghi simili, ma le padrone di casa non se ne accorgevano. Sono vestite come Dio vuole e, poichè gli specchi sono rarissimi in quei paesi, le donne si mettono intorno a caso ornamenti di cui non possono valutare esattamente le strane ripercussioni. Arrotolano intorno al capo dei fazzoletti di cotone stampato e vi puntan sopra spilloni di diamanti e di pietre preziose. I loro capelli sono trascuratissimi ed i pettini sono solo conosciuti dalle gran signore che abbiano abitato alla capitale. Fanno un uso smodato di belletti di tutti i colori: ma non possono regolarne la distribuzione che ajutandosi l'un l'altra coi reciproci suggerimenti e, rivali come sono tutte queste donne che convivono nella stessa casa, non trovano di meglio che d'incoraggiarsi mutualmente alle dipinture più grottesche. Esse pongono del carmino sulle labbra, del rossetto sulle guancie, sul naso, sulla fronte, sul mento, del bianchetto arbitrariamente e come sfondo, del bleu intorno agli occhi e sotto il naso. Quello che è ancora più strano è il modo con cui si tingono le sopraciglia. Devono aver udito dire che le sopraciglia acquistano bellezza col formare un grande arco, e ne concludono di potersi far tanto più ammirare quanto più grande sarà questa curva, senza domandarsi se essa non abbia il suo posto delimitato irrevocabilmente dalla natura. Attribuiscono quindi alle loro sopraciglia tutto lo spazio tra una tempia e l'altra e si dipingono sulla fronte due archi immensi che partono dal culmine del naso e se ne vanno, ciascuno per conto suo, fino alle tempia. Non mancano, per quanto sieno casi rari, delle giovani beltà bizzarre che preferiscono la linea retta alla curva e che disegnano una grande riga nera traverso la fronte.

      Il risultato più certo e più deplorevole di tutto ciò è il sovrapporsi di tutta questa pittura alla pigrizia ed alla sudiceria che riescono così naturali alle donne dell'Oriente. Ogni viso di donna diventa un'opera d'arte molto complessa e non si potrebbe rifarla tutte le mattine. Perfino le mani ed i piedi tinteggiati in color arancione sfuggono all'azione dell'acqua che può compromettere queste bellezze. La massa di bambini e di schiave, specialmente nere, che affolla gli harem,

Скачать книгу