Ogni Minuto. C. J. Burright

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Ogni Minuto - C. J. Burright

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batterla in uno spareggio. Puntò ai quaranta punti.

      Il tiro ripeté il punteggio precedente di Tatum, rimbalzando sul bordo dei quaranta. Il rotolo si capovolse, cadendo e rimbalzando nei trenta. Merda. Poteva ancora batterla. Non avrebbe mai dovuto permettere a Tatum di trascinarla in quella situazione. Già, i bambini di terza elementare sono ottimi capri espiatori.

      Garret riprese a studiarla, arrotolando distrattamente la carta igienica tra i palmi delle mani - quella stessa, seria concentrazione che le faceva sentire come se lui potesse vedere ogni vulnerabile frammento della sua anima. “Cinquanta punti per vincere, Adara.”

      Quasi ipnotizzata dallo sguardo di lui, Adara avvertì il tono basso e sensuale di Garret avvolgerla. La giovane tossì per rompere l’incantesimo. Lui aveva sempre mancato i cinquanta punti. Non c’era modo che lo colpisse ora. “Quaranta punti per pareggiare.”

      Sul viso di Garret tornò il sorriso che non era affatto come l’amichevole scatto di gioia che aveva indossato prima. Era il sorriso a denti stretti di un lupo, sicuro di sé e affamato. “Non mi piace pareggiare.”

      Fece perno, puntò e affondò la carta igienica nel cinquanta.

      Adara sbatté le palpebre. Merda.

      Sia Tatum sia Bob esultarono.

      Garret saggiamente esternò i suoi festeggiamenti con un piccolo sorriso, una mossa intelligente. Una danza della vittoria avrebbe scatenato la violenza. “Per la cronaca, il mio unico trofeo di pallacanestro è il premio di plastica del negozio “tutto a un euro” vinto sul campo del vialetto di famiglia. È passato tutti i giorni tra le mie mani e quelle di mia sorella London mentre crescevamo. Ho vinto la nostra ultima partita, così ho reclamato il suo ultimo posto.” Garret si stiracchiò lentamente, come se stesse scaricando la tensione di una vittoria emozionante. La sua fossetta riapparve. “Non ti ho ingannata, davvero. È stato un colpo fortunato.”

      Lo stomaco di Adara si contorse. Avrebbe dovuto cenare con quell’uomo che la impressionava anche senza il suo violino, da sola, senza bambini a distrarla. Sopportarlo senza conseguenze avrebbe potuto richiedere qualche nuovo trucco.

      Un colpetto sulla spalla la riportò alla realtà. Accanto a lei c’era una bambina con un lecca-lecca appeso tra i lunghi capelli biondi. “Ho un problema.”

      Grazie a Dio. Qualcosa su cui concentrarsi che non riguardasse scommesse perse, inviti a cena o musicisti. “Andiamo nella mia classe. Ho un barattolo d’emergenza di burro d’arachidi a portata di mano.” Appoggiò una mano sulla spalla della bambina e la spinse in avanti. Se non si fosse voltata indietro e avesse fatto finta che gli ultimi quindici minuti non fossero trascorsi, forse avrebbe potuto pensare di aver avuto un incubo.

      “Verrò a trovarla, signorina Bennet.” La voce di Garret la seguì, piena di umorismo consapevole, come se sapesse esattamente cosa lei avesse pensato. “Charles Bingley mantiene sempre la parola data.”

      La bambina guardò Adara di sottecchi, sollevando le sopracciglia.

      “È meglio che tu non lo sappia. Fidati di me.” Adara scosse la testa. “Vorrei poter dimenticare.”

       * * * *

      Garret appoggiò un fianco contro il bancone del Lancio della carta igienica mentre Adara si dirigeva tra la folla con la bambina con il lecca-lecca tra i capelli. Lei non si voltò mai, anche se lui l’aveva aspettato, sperato. La forma snella di lei scomparve dietro un groviglio di adolescenti. Il giubbotto fosforescente dell’addetto alla sicurezza lampeggiò una volta e poi lei sparì, come un corvo inghiottito dal mare colorato del carnevale.

      Garret non si preoccupò di trattenere un sorriso. Chara, l’umorismo tagliente di lei lo uccideva, una sincerità spudorata che gli era mancata oltreoceano. Non gli importava che lei volesse allontanarlo, le sue risposte rivelavano quanto fosse veramente attenta, e se non fosse stata un po’ interessata, non avrebbe prestato attenzione.

      Più minuti passava con lei, più lui voleva sapere. Stasera aveva scalfito la sua superficie e ciò che si era liberato aveva risvegliato ogni senso. La sua risata era sufficiente a ispirare cori di angeli, ma lei era più timida di una creatura dei boschi. Guadagnarsi la sua fiducia avrebbe richiesto pazienza. Per fortuna, la pazienza era un’altra delle abilità particolari di Garret. Avrebbe usato un martello gioiello per scalfire la sua armatura finché non fosse rimasto nulla tra di loro.

      “Qual è il problema, Bob?” Si voltò verso il cognato e incrociò le braccia. “Il doppio o niente? Non sono sicuro se stessi cercando di aiutarmi o di affondarmi.”

      “È passato molto tempo da quando ho visto Adara anche solo lontanamente divertirsi.” La pietà offuscò l’aperta cordialità nell’espressione di Bob. “Continuare a giocare ancora per un po’ sembrava la cosa da fare.”

      Garret odiava che il dolore la annebbiasse, isolandola. “Quindi non aveva niente a che fare con l’aiutarmi.” Il violinista picchiettò sul bancone, liberando il battito che gli pulsava nella testa. “E se avessi perso? Dubito che persino una doppia sfida l’avrebbe fatta andare avanti.”

      Bob strizzò gli occhi, cancellando ogni preoccupazione. “London si è lamentata abbastanza di quel ridicolo trofeo di basket di plastica. Odia che tu l’abbia ancora. Mi fidavo di te.”

      “Non ci hai mai visto giocare? Facciamo schifo entrambi.” Garret afferrò un altro rotolo e lo lanciò, mancando il centro. “Ma solo un disastro naturale mi avrebbe fermato. Probabilmente mi hai risparmiato mesi di figuracce. E questo solo per rimediare un misero appuntamento.”

      “Ti fermi così a lungo?” La sorpresa nella voce di Bob non era offensiva. Da quando aveva ottenuto la sua libertà di adulto, raramente Garret aveva pianificato la sua mossa seguente, lasciando che il suo cuore lo guidasse. Non aveva pianificato nulla se non il suo lavoro temporaneo di tutor musicale, grazie alle suppliche di Tatum e ai legami che Bob aveva con il preside. Il suo manager gli aveva riferito un paio di offerte, se avesse deciso di tornare. Quelle offerte non sarebbero rimaste disponibili per sempre.

      “Non c’è niente di definitivo. Forse vedrò come vanno le cose come tutor di musica” – Garret si schiarì lo strano graffio alla gola - “e con la signorina Dumont.”

      “Basta fare attenzione. Non puoi ispirare tutti.”

      Garret squadrò le spalle e sollevò il mento. “Guardami.”

      “Santo cielo, sei testardo come London.” Bob allungò il pugno e aspettò che Garret lo battesse con il suo. “Non c’è di che.”

      “Andiamo, zio Garret.” Tatum gli tirò la manica, lasciando un’altra serie d’impronte rosa appiccicose, apparentemente stanca di sopportare i discorsi degli adulti e dimenticando tutto sul fingere di essere Elizabeth Bennet. “Hai promesso che potevo andare nella casa gonfiabile e Bryan non è ancora tornato, quindi scommetto che è già lì. Andiamo.”

      Mentre Tatum lo trascinava per un braccio, Bob lo chiamò. “Attento, Garret. Quando London saprà di stasera, chiederà la rivincita. Rivuole quel trofeo.”

      Garret sollevò la mano per indicare che aveva sentito, poi sorrise a nessuno in particolare.

       È bello essere a casa.

      Capitolo sesto

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