Le amanti. Matilde Serao

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Le amanti - Matilde  Serao

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è alle dieci e mezzo: verrò a prenderti alle dieci – disse Ferrante, gelidamente.

      Le fece un saluto corretto e si allontanò subito.

      II.

      Ella entrò nella sua stanza e vi si chiuse, buttandosi pesantemente sopra una poltrona: si sentiva morire di tristezza, sentiva di essere disamorata, crudele con Ferrante, eppure non trovava ancora uno slancio di tenerezza, un impeto di passione per fargli dimenticare tutte quelle noie, quelle punture, quei disinganni, quelle amarezze. Ma tanta gente era loro intorno, dovunque, alla stazione, in piazza, nell’albergo, gente estranea, è vero, ma curiosa, dall’orecchio teso, dallo sguardo acuto! Ella si era chiusa nella sua stanzetta, stanzetta piccola, linda, ma banale come tutte le stanze di albergo, ma fredda con tutto il lieto sole autunnale che vi entrava; Grazia si era chiusa lì dentro, e un profondo pentimento le veniva in cuore, pel modo come aveva trattato Ferrante; la propria ingiustizia verso quel forte e docile amante che nulla chiedeva, che non si lagnava, che cercava di allontanarsi, di ecclissarsi sempre, onestamente, correttamente, mentre nell’anima gli ardeva la grande fiamma, questa propria ingiustizia, le faceva orrore, le sembrava un egoismo mostruoso, la crudeltà di una donna glaciale che pospone sempre il mondo all’amore. Rivoltata contro sè stessa, si levò per chiamare, per far avvertire Ferrante di venire da lei: voleva buttarglisi alle ginocchia per farsi perdonare, poichè egli solo era buono e giusto. Ma mentre era lì per premere il campanello elettrico, udì parlare sommessamente, nella stanza attigua. Si fermò: non era sola dunque, malgrado che si fosse chiusa a chiave? Aveva dei vicini, a destra e a sinistra, forse da tutte le parti, che, come ella udiva la loro, avrebbero udita la voce di Ferrante e la sua, parlando d’amore? Oh questi alberghi, che realtà, che realtà meschina, sconfortante, nauseante! Tornò alla poltrona, vi si sedette, senza far rumore, aspettando che le voci cessassero; forse i vicini sarebbero usciti, partiti: allora ella avrebbe chiamato Ferrante, per farsi perdonare. Ma le voci dopo qualche intervallo di silenzio, brevissima pausa, si udivano di nuovo: erano quelle di un uomo e di una donna, che discutevano pacatamente; si afferrava ogni tanto una parola, facevano il conto del loro viaggio. Ella fremeva, si agitava sulla poltrona, sperando sempre, a ogni momento di silenzio, che i vicini se ne fossero andati: ma quietamente essi ricominciavano a chiacchierare, con un’intonazione monotona, senza stancarsi. Per un momento Grazia si turò le orecchie quasi piangendo, al colmo di un urto nervoso che le poche ore di cattivo riposo del treno non avevano calmato: malediceva questi vicini che le rubavano quelle altre ore di felicità. Andò ad aprire la finestra della stanzetta, per sottrarsi a quell’incubo: il sole allietava tutto il piazzale della stazione, la giornata era dolce e bella, Grazia, stette guardando come un fanciullo che un nulla distrae, le persone che passavano sulla piazza. Così assorta, non udì che la seconda volta, quando bussarono alla sua porta. Era Ferrante: ma non entrò, rispettosamente.

      – Andiamo? – diss’ella sorridendogli.

      – Sì – disse lui, sentendo e vedendo la luce di quel sorriso, per la prima volta.

      Ella mise il suo braccio sotto quello di lui: si appoggiava lievemente. Non potea dirgli nulla: ma vi era nei suoi occhi, nella sottile mano guantata, in ogni movimento della persona tanta femminile tenerezza, una così affettuosa domanda di perdono che egli dovette intenderla, in tutta la sua manifestazione: due volte, per le scale in penombra, si fermò a guardare il volto della sua donna, quasi volesse imprimersi nel cuore quella espressione così viva. Chi li vide passare di nuovo, sulla piazza, per la stazione, andando a mettersi nel vagone, in quella bionda mattinata di autunno, intese, certamente, che passava sul capo di quei due felici una silenziosa ora celestiale. Di quanto intorno ad essi avveniva, quei due più non sapevano: una macchinale coscienza, memore di altri viaggi, di altre partenze li guidava nella loro vita esteriore: una coscienza meccanica che si chetò, anch’essa, quando il treno fu partito da Roma. Erano soli. Una parte delle tendine color di legno erano tirate, contro il sole che si avanzava; solo da due cristalli si vedeva il paesaggio fuggente. Ferrante si era seduto accanto a Grazia: la mano di lei era fra le sue, stretta mollemente: a un certo momento ella la ritirò, ma soltanto per sollevare il suo velo bruno; la picciola mano fedele ritornò subito fra quelle dell’amor suo. Nè dicevano nulla. La delizia di due amanti, soli nel vagone fuggente per la campagna, fuggente innanzi ai villaggi e alle piccole città, ha poche delizie che la eguaglino: tanto è acuto il senso di libertà, di amore inconturbato, di oblìo terreno che dà quella fuga. Non esistono più nè lo spazio, nè il tempo, nè l’uomo, nè la vita: esiste solamente l’amore, nella sua massima condizione d’indipendenza, trasportato lontano, lontano, dove non vi sia che amore. Che dirsi? Ogni tanto ella sentiva che Ferrante la chiamava per nome, ripetendone due o tre volte le sillabe incantatrici: ma forse non la voce di Ferrante, era l’anima che parlava e l’anima di Grazia stava a sentire. Due o tre volte, a un lembo di paesaggio illuminato di sole, a un piccolo paese sospeso lungo i fianchi di una collina, innanzi a una grande pianura maestosa, i due volti si accostavano, dietro allo stesso cristallo, per vedere come era bello il mondo esteriore, non quanto quello che portavano nel cuore. Tacevano. Sentivano che era quella l’ora invocata tante volte, nelle insonnie della notte, nelle vuote mattinate, nelle sere affannose; sentivano che era quella la realtà del loro infinito desiderio, l’amore nella solitudine suprema; e sembrava loro che qualunque parola dovesse turbare questo sacro raccoglimento, questa concentrazione di felicità. Niuno sapeva più nulla di loro: essi non sapevano più nulla, di niente: e poteano dire che il mondo era scomparso, o era stato assorbito nella incommensurabile dolcezza del loro amore. Solo quando il sole cominciò a discendere sulla poetica campagna toscana, un senso di malinconia si mescolò, naturalmente, a tanta dolcezza. Era una mestizia fuor di loro, che veniva dalle cose: il paesaggio verde, i colli così pittoreschi, e le bianche case, e il fiume mormorante sul greto, e i campanili dei villaggi si fecero prima rossi, poi violacei, poi bigi: tutti i veli avvolgenti, misteriosi, malinconici del tramonto salirono dalla terra al cielo. Parve che il treno corresse meno rapidamente, come preso anch’esso da una fiacchezza; le voci delle stazioni erano meno vivaci, meno allegre, alcune sembravano rauche, altre fioche; il fiume, apparendo, riapparendo, assunse un aspetto tragico, di acqua traditrice gorgogliante; la stretta di mano di Ferrante che teneva nella sua quella sottile di Grazia, si allentò, come se lo cogliesse una improvvisa, crescente debolezza e la mano sottile si raffreddò sotto il guanto. Videro un cimitero: un piccolo cimitero di paesello a mezza costa, con quattro o cinque cipressi e poche lapidi bianche.

      – Beati i morti – ella disse sottovoce quasi parlasse a sè stessa.

      – Chissà! – le rispose lui, sul medesimo tono. – Forse amano ancora.

      – Tu hai tombe, per il mondo? – gli domandò lei, piegandosi a guardarlo, in quella penombra crepuscolare.

      – No: ma tutti abbiamo delle tombe, in noi.

      – Molte cose hai veduto morire?

      – Molte cose e molte persone che son vive.

      – È triste, è triste – diss’ella ributtandosi indietro, sulla spalliera.

      – La tristezza è in fondo alle anime: non bisogna andarla a cercare – soggiunse Ferrante, come se pronunziasse una sentenza.

      Tacquero. Ella aveva abbassato il velo sul viso di nuovo e il capo sul petto. Egli si levò, guardò dallo sportello opposto, nella penombra, per qualche tempo; poi ritornò vicino ad essa, sedendosi.

      – Grazia?

      – Ferrante?

      – Che hai?

      – Nulla – fece lei, con un gesto largo.

      – Dimmi, dimmi che hai.

      – Quello che hai tu – rispos’ella, enigmaticamente.

      – Non parlare di me:

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