Le amanti. Matilde Serao

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Le amanti - Matilde  Serao

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i carcerati e i carabinieri, li conduceva per la laguna, alla tetra dimora. Grazia seguì con l’occhio il nero convoglio filante sulle acque; poi abbassò il capo sul petto, reprimendo le ardenti lacrime che le salivano agli occhi. Fu più innanzi, in un canale laterale che si lega al Canal Grande nel sestiere di Dorsoduro, che incontrarono la più tetra barca della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il rostro lucido; era più larga, più piatta; si dondolava goffamente sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne erano sotto il portoncino.

      – Che è quella gondola? – disse Grazia al gondoliere, scattando in piedi.

      – È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini.

      – Andiamo via, andiamo via, Grazia – disse Ferrante rompendo il silenzio, dolcemente, volendo infrangere il malo incantesimo di quella giornata.

      – No, no, voglio vedere – disse lei, duramente – gondoliere, fermati un poco.

      – È meglio andare, cara, è meglio – ribattè lui, umilmente, crollando il capo.

      Ma ella non gli dette retta. In piedi, appoggiata al divanetto di destra, guardava nel portoncino nero, donde arrivava un confuso mormorio.

      – Voglio vedere questo morto – disse a sè stessa, senza distogliere gli occhi dal portoncino.

      E quasi la sua anima desiosa di dolore, avesse avuto una forza magnetica, un tumulto si fece nell’ombra del portoncino, e fra un piccolo gruppo di donne e di uomini, portata da due altri becchini, comparve la bara; dietro le persiane di una finestra, al primo piano, si udiva un singhiozzo disperato e si vedeva una mano convulsa che tentava di aprirle, mentre qualcuno si opponeva, tenendole ferme. Questi volevano vedere la bara, che veniva caricata nella gondola funeraria: la piccola bara, la sottile bara, poichè era la bara di un bambino, e lassù, era certamente la madre del bimbo che singhiozzava e tentava disperatamente di aprire la finestra. A un tratto, con un moto svelto di gente pratica, i becchini gondolieri ficcarono la piccola bara sotto il felze e ne richiusero con un colpo secco la porticina. Il picciolo morto era solo, là sotto. Ai quattro lati del felze furono sospese delle povere e pallide corone di sfatti crisantemi, che una fanciulla piangente in silenzio aveva porto ai becchini.

      – Andiamo via, presto, presto – disse nervosamente Grazia al gondoliere, ricadendo a sedere sul divanetto.

      A un tratto era stata presa dall’orribile paura di dover fare la stessa via del morticino; e soggiungeva, mentre si allontanavano, senza voltare il capo indietro, presto, presto. Alle spalle il singhiozzo della persona che si disperava dietro la gelosia si era fatto più forte, più alto: la barca funeraria si metteva in moto. Ma era così lenta, che la gondola di Grazia e di Ferrante scomparve subito. Quando ebbero camminato per un pezzo, allora soltanto ella si voltò a guardare Ferrante, ma lo vide così travolto, così pallido, che ne ebbe orrore e pietà. E dopo un minuto di intensa riflessione, ella intuì, ella indovinò il pensiero di lui:

      – Tu pensi al tuo bambino? – gli disse, sottovoce, nella faccia.

      Ah, questa volta, questa volta, egli non ebbe il coraggio di negare: disse di sì, semplicemente, senz’altro. Ed ella, allargando le braccia, fece un atto di persona vinta, che lascia andare la sua vita al vortice soverchiante.

      Pure, nella serata, ubbidendo alla sua natura buona e generosa, ella andò a lui, nella pace fredda del grande salone e lo pregò che le perdonasse. Si umiliava, tutta confusa, sentendo sempre più grande farsi la lontananza fra loro, cercando, con la bontà, con la pietà, di riavvicinare le loro anime, nuovamente. E lo vide tremare, come essa tremava, di dolore, di tenerezza, di compassione: egli le carezzò lievemente i capelli, con quel moto affettuoso, famigliare, aggiungendo qualche vaga parola di conforto: e l’uno voleva consolar l’altro, a forza, come di una grande sventura ignota, di cui nessuno dei due voleva pronunziare il nome. Nell’ombra del salone che solo la vampa del caminetto spezzava, gittando spruzzi sanguigni di luce sul vecchio tappeto veneziano, essi si tenevano per mano, frementi di dolore, balbettando incerte parole di consolazione e sembravano, insieme, in quell’ora bruna, in quella camera, la rovina di una grande cosa, i superstiti di un naufragio dove tutto avessero perduto.

      Nè il sole novello, nè le miti giornate di ottobre, nè gli sforzi dei loro cuori coraggiosi e onesti, nè la paura della catastrofe che vedevano avvicinarsi e pure volevano scongiurare, potevano ridonare a Grazia e a Ferrante, ciò che era irreparabilmente fuggito. Ancora per vari giorni Venezia che tanti amori e tanti amanti ha visti e dovrà ancora vedere, per vari giorni la soave città languente di morte, vide questi due amanti nelle sue calli, nelle sue piazze, nelle sue chiese, sempre insieme, tenendosi sempre per mano, come se volessero comunicarsi un fluido che li legasse per sempre, come se volessero vincere un potere ignoto che aspirasse al dissolvimento. Incapaci di reggere alla solitudine della loro stanza segregata, della loro casa così piena di tristezza, incapaci di prolungare un dialogo solitario senza che li conducesse, istintivamente, inconscientemente, a una fatale conclusione, essi cercavano di mettere il mondo esteriore fra loro, desiderosi di quanto potesse distrarre i loro occhi e le loro anime. Quella semplice e bonaria vita esterna veneziana, li seduceva, non in sè, ma perchè li toglieva alla tetra domanda della loro coscienza; le lunghe stazioni sotto le Procuratie, innanzi ai piccoli tavolini del caffè Florian, dove si ripetono, meno ingenue e meno piacevoli, le scene goldoniane; le lunghe stazioni, in piazza, guardando il volo dei colombi che discendono a mangiare il miglio, buttato dalle candide mani di una fanciulla inglese, ammalata di nostalgia e di anemia; le lunghe stazioni nella basilica dove, sotto le arcate che pare abbiano profondità infinite, i lumicini delle lampade moresche brillano innanzi alle sacre immagini cristiane, innanzi ai santi e alle sante dalla faccia nera e dal vestito di argento; le lunghe stazioni sulla riva degli Schiavoni, nell’ora del tramonto, in una luminosità così fine, così trasparente che nessun paese possiede, che nessun poeta ha saputo descrivere e nessun pittore dipingere; le lunghe passeggiate per le straduccie strette che sembrano corridoi di una immensa casa, la compra di gingilli, di ricordi nelle microscopiche botteghe di Merceria e di Frezzeria; le lunghe contemplazioni artistiche nei musei e nelle gallerie, innanzi ai capolavori umani e divini di Carpaccio e di Gian Bellino, del grande Paolo e del superbo Tiziano. Qui erano più lunghe e intanto più pericolose le loro dimore, poichè la sublime arte veneziana è così fatta di amore supremo e di amore terreno, che è impossibile non amare o non parlare di amore, per essa. Queste manifestazioni così potenti della passione, mentre li attraevano, li lasciavano turbati sino agli strati imi del cuore. Più di una notte, levandosi nella veglia affannosa, uscendo dalla sua stanza nella bianca vestaglia come un fantasma che non avrà mai requie, Grazia andava fino alla porta della stanza di Ferrante e sentiva che anche lui vegliava, passeggiando, fumando, schiudendo la sua finestra per guardare il negro Canal Grande. Due volte sentì che egli scriveva, che scriveva tanto concitatamente che la penna strideva sulla carta. E a chi scriveva? Ella non osò mai chiamarlo, mai chiederglielo. Due volte Ferrante era uscito, solo, forse per impostare queste sue lettere; mai era giunta una lettera di risposta. L’angoscia che li ardeva, adesso, non era più che dolorosa: era una vampa che li consumava in una lotta contro un nemico sconosciuto che prendeva sempre più terreno, che ogni giorno guadagnava una piccola o una grande battaglia; era una fiamma che li devastava da cima a fondo, facendo il vuoto in essi, senza che le lacrime alla tenerezza valessero a smorzarne l’incendio. Nè l’uno diceva all’altro il segreto di queste veglie ardenti e desolate; ma ognuno lo indovinava questo segreto, sul volto dell’altro, senza parlare, anzi temendo di parlare. Ancora camminavano accanto, nella vita, tenendosi per mano: ma a un motto, a un gesto, tremavano di veder sparire l’amata figura daccanto. La solitudine, la solitudine a cui nessun segreto resiste, la solitudine che risolve a rilento o bruscamente tutti i grandi problemi morali dello spirito, era quella che li sgomentava. Avevano deserta la casa, ora. Un

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