Le amanti. Matilde Serao

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Le amanti - Matilde  Serao

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non canta certo le ottave di Torquato Tasso, come dicono i poeti di Venezia – osservò Ferrante, nel cui cuore lo scetticismo soverchiava ogni tanto il sentimento.

      – Eppure questa laguna avrebbe dovuto esser fatta solo per l’amore e per l’arte – mormorò ella, aspirando il profumo di un mazzolino di violette – non per il duro lavoro e per la miseria.

      – Gli uomini guastano tutto – osservò sentenziosamente Ferrante.

      – Sì – approvò lei, chinando il capo.

      La gondola andava lentamente, fra il gorgoglìo delle acque smosse; a un certo punto, lasciando il Canal Grande, infilò un piccolo canale, fra due alti palazzi grigio-verdastri. Così faceva sempre il gondoliero che li conduceva in giro, senza chieder loro dove volessero andare. Due o tre volte lo aveva chiesto: ma essi si erano guardati in faccia, esitanti, non sapendolo. Ora, non domandava più. A ogni voltata di piccolo canale gli usciva dal petto un grido gutturale di avvertimento; a cui spesso rispondeva un altro grido, simile, dall’altro gondoliere che gli veniva incontro, con la sua gondola.

      – Perchè le gondole sono così nere, nere dappertutto, nel panno, nel legno, nei cordoni, nei fiocchi?– domandò distrattamente donna Grazia.

      – Portano il lutto della repubblica – rispose Ferrante, che aveva accesa una sigaretta e fumava.

      – Veramente? – fece ella, guardandolo.

      – Veramente.

      – È triste, è triste – susurrò lei, colpita.

      Ma sbucavano in Cannaregio, il quartiere popolare, le cui case sono piccole, le cui finestre sono adorne del bucato familiare, le cui fondamenta sono continuamente battute dai vivaci zoccoletti delle donne: ed è un andirivieni, al sole, di bimbi biondi, di donnine dai capelli neri e ricci, a ondate fulve, di uomini piccoli e tarchiati dai mustacchi folti, ispidi e rossastri, mentre l’allegro e lezioso dialetto forma un brusìo, dovunque. Anzi, dinnanzi a una casa, vi erano certi suonatori di chitarra, seduti per terra, mentre una donna in piedi, sotto l’arco del portone, cantava una bizzarra melopea, gutturale, quasi orientale, chiamata la strega, che un coro di donne e di bambini riprendeva, a ogni ritornello, con voce sorda e grave.

      – Qui sono allegri, almeno – disse donna Grazia, un po’ rinfrancata, sollevandosi sui cuscini. – Restiamo qui, un poco.

      Sotto l’arco di un ponticello, accanto al traghetto, la gondola si fermò. I due amanti tacevano, mentre il gondoliere si riposava. La canzone della strega continuava, grave, come una canzone di Costantinopoli o di Algeri: ma i suonatori e i cantanti sogguardavano spesso i due signori della barca, intimiditi, mentre la musica, a poco a poco andava diventando più debole, più bassa, come scoraggiata dalla presenza di quegli estranei. Una ragazza snella, dallo sciallino di lana rossa, che distendeva una fune da un anello ad un altro sulle fondamenta, per mettervi ad asciugare delle matasse di seta tinta, si fermò nel suo lavoro, facendo solecchio con la mano, per vedere se quei signori se ne andavano.

      – Andiamo via, non disturbiamo questa buona gente – disse Grazia.

      – Sono poco abituati ai forestieri: il Cannaregio è un quartiere di poveri, di operai – rispose Ferrante.

      La barca si allontanò, mentre, alle spalle, ricominciava l’allegro brusìo del dialetto, ricominciava il ticchettìo degli zoccoletti sulle fondamenta di pietra levigata, ricominciava la canzone costantinopolitana della Strega. Andarono innanzi molto tempo, incontrando pochissime gondole, trovandosi a un tratto in un largo canale deserto: un canale così vasto, così torbido nelle sue acque immobili, così malinconicamente intonato che donna Grazia, per vincerne l’impressione, ne chiese il nome al gondoliere.

      – È il Canale Orfano, eccellenza.

      E la gran leggenda tragica, che era durata, sinistra e tetra, per centinaia di anni, la leggenda di tutti quei condannati, innocenti o rei, che dopo aver agonizzato per giorni e mesi nelle carceri soffocanti della Repubblica, in una notte oscura, facevano l’ultimo loro viaggio sotto il felze opprimente della gondola, per essere strangolati tacitamente e gittati nelle acque profonde del Canale Orfano, si parò innanzi alla fantasia dei due amanti, con tutti i fremiti di sgomento che tale visione truce può dare.

      – Il fondo deve essere coperto di scheletri – disse donna Grazia, guardando fissamente l’acqua.

      – Torniamo indietro – soggiunse Ferrante con voce alterata.

      Tornarono: e come il gondoliere affrettava il movimento dei suoi remi, donna Grazia gli fece cenno, con la mano, di far piano: pareva che temesse di disturbare quei morti. Ancora, silenziosi, vogarono per i canali, muti, quasi stanchi, non guardandosi neppure. Il movimento della gondola, a lungo, li gittava in un intorpidimento di tutti i sensi; tanto che neppure l’ora fuggente aveva più valore per essi. Canali seguivano canali: l’acqua era, dove verdastra, dove bigia, dove semplicemente torbida, dove con un’opaca oscurità di carbone: palazzi seguivano i palazzi, portoni pesanti chiusi come da secoli, gradini corrosi dalla salsedine, alti pilastri piantati nelle acque per legarvi le gondole e che s’inclinavano come se fossero presi da una inguaribile debolezza, finestre senza cristalli, ma le cui imposte verdi sembravano sbarrate per sempre. Ogni tanto un monastero, una chiesa, una bottega d’infilatrice di perle; di nuovo portoni chiusi a catenaccio e finestre serrate sino all’ultimo piano. La linea era pura, bella, artistica: la poesia che traspirava da tutto l’ambiente era grande, ma portava un profumo di fiori morti. E i due cadevano in un languore di mestizia che ne domava ogni entusiasmo, che ne annullava ogni impeto di vitalità.

      – Qui, dicono fuggisse Bianca Cappello, per andarsene con l’amante a Firenze – disse Ferrante indicando una finestra bassa di un grande palazzo.

      – Oh!… – fece Grazia, senza aggiungere altro.

      E dopo un poco, sogguardando l’uomo che amava, facendo cadere le parole, ad una ad una, gli chiese:

      – Tu sei stato un’altra volta, a Venezia?

      Egli intese la profondità della domanda e il pericolo della risposta: una rapida emozione gli scompose il volto. Ma fu incapace di mentire.

      – Sì: un’altra volta – rispose nettamente, buttando nel canale la sigaretta spenta.

      –… Molto tempo fa? – aggiunse ella, con la freddezza e la tenacità di un giudice che interroga.

      –… Non molto.

      Ella tirava, macchinalmente, ad una ad una, le violette dal mazzolino che teneva nelle mani e dopo averle fatte girare intorno al dito, le buttava in acqua, seguendole un momento con l’occhio. Poche ne rimanevano, smorte, quasi appassite nella larga foglia verde che le accartocciava, penzolanti sugli stelucci.

      – Eri solo? – finì d’interrogare lei, sempre tenendogli piantati gli occhi sul volto.

      Egli non rispose, nè prima, nè dopo, sentendo la crescente crudeltà di quel dialogo. Non rispose e volse il capo altrove. Allora ella, con l’aria di una persona perfettamente convinta, guardò un’altra volta le sue ultime violette e con un atto risoluto, le buttò in laguna, tutte. Ostinatamente, per nascondere il rivolgimento del suo spirito, egli guardava dall’altra parte; e anch’essa si mise a fissare un punto qualunque dell’orizzonte. Una brutta gondola passò: le finestrine del felze, senza i soliti delicati ornamenti di ferro lucido, erano chiuse coi lucchetti, come una cassa forte. E sulla porticina del felze, a guardia, stavano seduti due carabinieri in tenuta di viaggio e coi fucili fra le gambe, immobili, in quell’attitudine

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