Le amanti. Matilde Serao

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Le amanti - Matilde  Serao

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dall’altra sponda sullo squillante, fragoroso, tempestoso Adriatico. È su quella sponda che si erge il bello stabilimento di bagni marini, dove accorre tutta Venezia e vengono italiani da tutte le parti, e anche stranieri, tanta è la gaiezza estiva di quel ritrovo. Ma nulla è più stranamente malinconico della città di svernatura al mese di agosto, e delle spiaggie di bagni quando l’estate è fuggita via, da tempo. I viali dell’isola erano deserti e il piccolo tramvai andava e veniva, pian piano, vuoto, tanto per fare le sue corse di quel giorno. Lo stabilimento aveva tutte le porte dei suoi camerini aperte; alcune sbattevano contro le pareti, per il vento forte del mare, le onde schiumavano rabbiose contro i pali, frangendosi. Nel grande salone-terrazza, non un’anima; solo il custode sonnecchiava nel suo casotto, malgrado il cattivo tempo. Grazia e Ferrante andarono ad appoggiarsi alla ringhiera, guardando quel grande mare burrascoso che li aspergeva di minute stille gelide. A un tratto una voce amica li riscosse dalla triste contemplazione: un altro solitario era, colà, un amico di entrambi, un gentiluomo meridionale, cuore profondo sotto apparenze un po’ leggiere, un po’ scettiche. Era il solo che aveva intravveduto la loro passione: e trovandoli colà non mostrò nè meraviglia nè freddezza. Per una stranezza Grazia e Ferrante oppressi dalla solitudine e dalle loro segrete torture morali, per quanto prima avevano odiato ogni contatto umano, per tanto in quel giorno furono contenti di trovare quell’amico, quel terzo. E la conversazione, sui banchi umidi di salsedine del vuoto stabilimento, fu insolitamente cordiale, come se un misterioso vincolo legasse spiritualmente quelle tre persone. E anche Giorgio, il gran signore ricercato dei balli e delle caccie, lontano da Roma, in quel posto così deserto, in quella giornata di temporale, pareva avesse dimenticato il suo leggiadro scetticismo, pareva che una nota più sentimentale, più tenera, vibrasse nel suo cuore e nella sua voce. Grazia che lo conosceva da anni glielo disse.

      – È il contagio – disse Giorgio, con una velatura di sorriso.

      – Della persona? – gli domandò Ferrante, serio serio.

      – Anche. Ma è Venezia, sovra tutto. Io non posso ritornare in questo paese, senza sentir rinascere in fondo al cuore tutte le onde soffocate di tristezza.

      – Anche voi? – mormorò Grazia, abbassando gli occhi.

      – E perchè ci vieni? – chiese Ferrante. – Perchè scavare in sè questi strati così amari? I saggi sanno dimenticare.

      – Sei un saggio, tu? – gli chiese ironicamente Giorgio.

      – No – fece l’altro, con un senso di umiltà nella voce.

      – E io neanche. Ogni anno vengo qui per un pellegrinaggio…

      – Religioso? – chiese Grazia.

      –… pietoso – rispose Giorgio. – Quando la vita esteriore più mi ha inaridito tutte le fonti del sentimento, quando più mi sento un freddo egoista capace di sacrificare tutto al mio piacere, quando più mi corrode la pazza vanità e la folle ambizione, allora io lascio Roma, lascio Parigi, lascio Londra e vengo qui, solo, a guarirmi, a diventar più umano, più buono. Voi ridete di me, forse?

      – No, non rido – soggiunse Grazia, pensosa, guardando il mare coperto di bianca spuma.

      Ferrante taceva, pensando.

      – Venezia mi contrista e mi guarisce – disse il bel gentiluomo, con la contrizione di un penitente, passandosi la mano sulla fronte, a scacciarne le ombre che la offuscavano.

      Stettero in silenzio, tutti tre: ognuno era preso dal proprio pensiero e il mare mugghiante accompagnava i voli di quelle fantasie. Fu Ferrante che si risolse a rompere il silenzio per il primo, sospirando chiedendo all’amico:

      – Dicci questa istoria, Giorgio.

      Giorgio guardò Grazia: e benchè ella non parlasse, lesse negli occhi di lei una preghiera.

      – Che vi può importare, una storia d’amore? – domandò Giorgio ad ambedue, guardandoli.

      Ma nuovamente vide in ambedue tanto ardente e doloroso desiderio di sapere, di conoscere, di misurare, che intravvide financo, dietro il desiderio, l’angoscia di ambedue. Intravvide, non si spiegò: intese che come a lui era necessario, in quel momento, uno sfogo, ad essi era necessario, in quello stesso momento, l’appagamento di quel tormentoso desiderio.

      – Sentite – disse. – Io ho conosciuta quella soave donna a Livorno, quattro anni fa. Era una polacca; si chiamava Anna; aveva un marito brutale, e che ne era molto, molto geloso. Ella era piccola, delicata, con certi lunghi e folti capelli fulvi e una salute così delicata, che il più piccolo soffio di vento la faceva tossire. Così leggiadra e così debole, io l’ho amata più di tutte le donne opulente, trionfali, maestose, l’ho amata più di qualunque donna abbia mai incontrata, più di qualunque donna potrò mai incontrare sul mio cammino…

      – Ella vi ha amato? – chiese ansiosamente donna Grazia.

      – Sì – disse Giorgio con semplicità, – Era buona e pia; ma mi ha amato, con tanto ingenuo trasporto, che io consumato alle esaltazioni della passione, fui scosso per la prima volta. Era così geloso il marito, che non le lasciava un’ora di libertà: qualche volta soltanto, quando ella andava in chiesa, poichè ella era cattolica e lui ateo. Bene, la cercai in chiesa: ella tremava, povera piccola, poichè diceva che questo era un sacrilegio, un’offesa a Dio, il quale ci avrebbe puniti, nell’amore nostro. Ma non poteva fuggirmi come io non potea trattenermi dal seguirla dovunque, dovunque…

      Ferrante e Grazia, ora si guardavano.

      – Tanto che – soggiunse Giorgio, preso dall’amarezza eccitante della sua narrazione – tanto che qualche cosa fu detta al marito; e da un giorno all’altro egli decise di partire. Oh quella notte! Coi piedi nudi nelle pianelle, ravvolta in uno scialle, tremando di freddo e di paura, Anna ebbe il coraggio di lasciare la sua stanza, senza svegliare suo marito e di venire da me, disperata, soffocando i singhiozzi. Ogni minuto che passava, di quella notte, poteva metterci in pericolo di morte, entrambi, eppure non sapevamo dividerci, delirando di amore e di dolore. Quando dovette lasciarmi, ella s’inginocchiò per terra e disse una breve preghiera, e sempre inginocchiata, giurò sopra un piccolo crocifisso di argento che le pendeva dal collo, che per il giorno venti di ottobre, alle dieci di sera, ella si sarebbe trovata a Venezia, ad aspettarmi: e che solo la morte avrebbe potuto impedirglielo…

      – Venne? – domandò Grazia.

      – Sì – riprese Giorgio – venne. – Aveva giurato. Io era da dieci giorni all’albergo Danieli, nascosto, inquieto, folle talvolta di paura, talvolta di speranza. Venne. Ma era morente, la piccola adorata; nè io seppi mai come aveva potuto sfuggire alla sorveglianza del marito, e quale lotta l’aveva ridotta in quello stato. Pure fingeva di star bene, per amarmi, per amarmi assai, sempre meglio, sempre più, mentre discendeva precipitosamente alla morte…

      – Una breve stagione d’amore? – chiese Ferrante.

      – Diciotto giorni. – Una sera che era andato fuori, costretto da un dovere inrecusabile, trattenendomi due o tre ore, al ritorno, non la ritrovai più. Era venuto il marito, improvvisamente, e l’aveva portata via. Per due giorni girai Venezia come un pazzo, cercandola. Non credevo a una immediata partenza. Poi mi misi disperatamente in via per la Polonia…

      – E la raggiungeste? – disse Grazia, quasi affannando.

      – No – fece Giorgio – era morta per viaggio.

      I tre amici, come si avanzava l’ora pomeridiana, uscirono dallo stabilimento e si avviarono lentamente verso la spiaggia lagunare dove ancorava il vaporetto che doveva ricondurli a

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