Le amanti. Matilde Serao

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Le amanti - Matilde  Serao

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ho paura… paura…

      – Di che, amore, hai paura?

      – Della vita.

      – Fole! – egli esclamò, sorridendo nella penombra.

      – E della morte, della morte, assai più.

      – La morte è lontana – fece lui.

      – Taci, taci – mormorò Grazia – forse passiamo innanzi a un altro cimitero.

      Quasi presa da un vago ma forte terrore, ella si era stretta a lui, infantilmente, poggiandogli la guancia sulla spalla, chiudendo gli occhi. Quei due sportelli su cui non erano tirate le tendine di lana, quegli sportelli oramai neri, nella sera fitta, affascinavano la donna, come se fossero aperti sull’infinito. Egli se ne accorse, vedendola immobile, estatica, con gli occhi sbarrati sul nero orizzonte che fuggiva dietro i cristalli: volle fare un moto per levarsi, per tirare le altre due tendine.

      – No, no – lo supplicò lei, stringendosi ancora, socchiudendo gli occhi.

      Restarono così: il lumicino ad olio del vagone tremava, pareva dovesse spegnersi ogni momento. Bizzarre ombre danzavano. sui divani: tenendola stretta a sè, bimba spaurita, Ferrante sentiva che Grazia affannava un poco. L’aria si era raffreddata. Una angoscia li opprimeva, entrambi, angoscia ignota, angoscia di chi ha intravvisto il negro problema dell’infinito. Due o tre volte egli volle muovere una mano per carezzarle i bruni capelli: ma ella temendo che Ferrante la lasciasse, rabbrividì di paura. Due o tre volte egli disse, sottovoce, come un soffio amoroso:

      – Grazia! Grazia!

      Ma ella fremeva, fremeva, e gli diceva:

      – Taci, taci, taci.

      Tanto che il lungo, sonoro fischio, triplicato fischio della vaporiera, le fece gittare un grido di spavento.

      – È il fischio di allarme, nevvero – domandò, piena di ambascia, quasi che non fosse possibile, in quel momento, altro che una grande catastrofe.

      – No, no, è Firenze.

      – Tre fischi, grave pericolo – balbettò lei ostinata.

      – È Firenze, è Firenze, cara.

      L’arrivo spezzò l’incubo. La carrozza in cui essi viaggiavano avrebbe proseguito sino a Venezia, attaccandosi, al treno in partenza da Firenze; ma per la partenza ci voleva un’ora e mezzo.

      – Scendiamo?

      – Sì, sì, sì – disse lei, levandosi, subito, avida di moto, di luce.

      – Vuoi pranzare, nevvero, cara? – chiese lui, trattandola infantilmente.

      – Sì, subito, subito – fece ella, attaccandosi al suo braccio, con un’improvvisa disinvoltura.

      Ora, per il livido chiarore del gaz, nella calda sala del Doney, seduta di fronte a lui, togliendosi lentamente, con un moto seducentissimo, i lunghi guanti neri, raddrizzando i numerosi anelli delle sue mani gemmate, appoggiando le lunate spalle a un seggiolone e distendendo i piedini sopra uno sgabello, ella era ridiventata la bella, vivace signora dei convegni aristocratici, dei balli inebbrianti, dei folleggianti pique-niques. Anzi, mentre i nervi le si chetavano nel senso di riposo che dà una sala lucente, tiepida, con qualche mazzo di fiori sparso qua e là, con una folla rumorosa che si rallegra nell’apprestamento del cibo, a questa sua bella serenità si mescolava la maliziosa soddisfazione della donna che gusta la libertà, il piacere bizzarro e pericoloso della prima, audace avventura di amore. Essere in compagnia di Ferrante che l’amava, che ella amava, guardandosi negli occhi, sorridendosi, innanzi a molta gente e senza punto curarsi della gente, pranzando insieme, come due sposi innamorati, parlando pianissimamente, a fior di labbro, ciò costituiva per lei una nuova, acre, vivida, soddisfazione umana, quasi, che ella esercitasse una lungamente meditata vendetta, di tanti pranzi di cerimonia, noiosi, banali, fra persone indifferenti e antipatiche. Una novella impensata trasformazione si faceva in lei: ella si sentiva fatta di umana argilla, si sentiva donna, si sentiva felice di quella libertà conquistata a prezzo di tante lacrime, assaporava con lentezza raffinata la sua parte di felicità terrena. Ferrante, con lo sguardo profondo dell’amore, le leggeva nell’anima; uno strano sorriso di conquista gli vagava sulle labbra; ed ella che vedeva questo sorriso di conquista, non se ne offendeva, no, anzi ne pareva singolarmente orgogliosa. Un senso segreto ma traboccante di sfida le saliva dal cuore, ribellatosi al cervello: una sfida contro tutto quello che aveva venerato, di cui aveva avuto, sino allora, rispetto e paura: parevale sentire, in quell’ora, la inutilità dell’abnegazione, la vacuità del sacrificio, la ingratitudine del mondo a qualunque privazione morale fatta per esso. E come questi superbi e acri pensieri le passavano nell’anima, corrodendone il buon metallo lucido del carattere, Ferrante seguiva questo passaggio e nel suo orgoglio di uomo si gloriava del cangiamento. Donna Grazia prese dei fiori, una grossa manciata di fiori, dalla fioraia che glieli offriva non senza timidezza: i morti fiori autunnali di cui ella adornò il suo grande mantello bruno, fra occhiello e occhiello: e dopo aver aspirato lungamente il fiore, quasi impercettibile profumo di una rosa thea, lo offrì a Ferrante con un muto cenno, con uno sguardo pieno di amore, sguardo così vibrante di elettricità che l’uomo impallidì. Adesso passeggiavano su e giù, nella galleria di aspetto, coperta di cristalli, e curiosamente donna Grazia si fermava a tutte le piccole botteghe, dove si vendevano dei nonnulla, piccoli ricordi fiorentini, chincaglieria povera di viaggiatori sentimentali ed economici. Essa volle comprare le noci intagliate che raffigurano la cupola di Santa Maria del Fiore, le scatolette di legno d’ulivo che vengono da Lucca e portano sul coperchio le due rondinelle fuggenti, col motto francese; je reviendrai, le scatole da guanti, di paglia, foderate di raso azzurro o rosso. Pareva una bimba bizzarra e ingenua, al suo primo viaggio; essa risalì nel vagone, ridendo, ridendo, buttando sui sedili i fiori, gli oggettini, andando e venendo, con le guancie un po’ calde e le belle mani che sembravano farfalle gemmate, volitanti di qua e di là. Siccome non si partiva ancora, Ferrante le chiese permesso di passeggiare sul terrapieno, per fumare una sigaretta.

      – Fuma pure – disse lei, crollando il capo, ridendo ancora sottovoce.

      Egli accese la sigaretta e si appoggiò a uno dei pilastri della tettoia, fumando silenziosamente, immobile, guardando il vagone, fisamente, come se là fosse tutta la sua vita, come se gli fosse impossibile di perderlo d’occhio. Improvvisamente ella si era fermata, nel vano dello sportello aperto, appoggiando la testa allo stipite di legno, e guardava Ferrante che fumava. Attorno a loro i viaggiatori si arrabattavano per trovare i migliori posti, per la notte: qualcuno si fermava innanzi al vagone, di cui donna Grazia sbarrava l’entrata, ma si ritirava subito, tanto quell’alta e snella figura di donna pareva lei posta a guardia della carrozza. Ferrante prese ancora un’altra sigaretta bionda, l’accese, la fumò, imperturbabile fra il chiasso di quella partenza per la linea Bologna-Venezia. Donna Grazia si era seduta dietro lo sportello, ma teneva il busto un po’ inclinato, per guardare ancora il suo compagno di viaggio: quando gli vide gittare metà della seconda sigaretta, spenta, mormorò sommessamente:

      – Non vieni?

      Egli dovette più che udire, intendere, tanto era fioca la voce seduttrice: fu nel vagone in un attimo, tirandosi dietro lo sportello.

      – Fuma anche qui: non mi fa male – disse lei, mettendosi di nuovo i guanti, mollemente.

      – No, no, tu devi dormire – rispose lui, con una tenerezza quasi fraterna.

      Ma fra le pelliccie, gli scialli, le coperte, al caldo, ella si addormentò assai tardi. Teneva gli occhi chiusi, però, lasciandosi prendere da tutta quella dolcezza dell’amore e delle cose;

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