Le amanti. Matilde Serao

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Le amanti - Matilde  Serao

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dormi? – chiedeva ella, vagamente, come se parlasse in sogno.

      – Non ho sonno – diceva lui facendole cenno di chetarsi, sorridendo tacitamente.

      Solo nel mezzo della notte, ella trabalzò, scossa da un grande fragore, vedendo una gran luce rossastra.

      – Che è? – gridò, levandosi a metà.

      – Niente, non aver paura: passiamo sul Po.

      Sulle rive nere del fiume, nella notte, grandi cataste di legna secca bruciavano: attorno ad esse i guardiani del fiume vegliavano e si riscaldavano, temendo l’inondazione autunnale.

      – Dormi, non aver paura – soggiunse lui, lasciando ricadere la tendina, sedendosi accanto a lei, passandole lievemente la mano sui capelli, per chetarla.

      Quando ella si risvegliò di nuovo, all’alba, avevano già oltrepassato Mestre, erano sulla stretta lingua di terra che attraversa la laguna. E non si vedeva altro, da tutte le parti, che una grande estensione di acqua immobile, senza che un solo soffio ne agitasse la tinta argentina, opaca. Ogni tanto una pianta acquatica, senza fiori, senza foglie, cioè un cespuglio di rami nudi e neri, irti come spini, usciva dall’acqua: o un pilone nero, un po’ inclinato, sorgeva dal fondo. Una lieve nebbia argentina ma senza luccicori fluttuava sull’acqua, e tutto l’orizzonte era della stessa tinta, senza che si potesse distinguere dove l’acqua finisse, dove cominciasse il velo di nebbia. Un vento umido e molle alitava. E il vagone parea molle di umidità, tutto il treno pareva andasse sull’acqua dormiente, attraverso la nebbia, fra il fiato umido e soffocante.

      – Ecco Venezia – disse Ferrante, un po’ ansioso, guardando più il viso di Grazia che il paesaggio.

      – Non vi è – diss’ella, vedendo solo la laguna e la nebbia, tremando un po’ nella voce, pallidissima.

      Si risedette; due volte mise la testa fuori del cristallo, guardò attorno, lungamente; si passò le dita sulla manica, come per sentire se fosse molle di umidità. Alla fine, fra la laguna e la nebbia, sorse qualche profilo bigio di una massa più oscura.

      – Ecco Venezia – ella mormorò, quasi fra sè. – Pare una tomba.

      Come tutte le altre mattine, fosse avvolto nella bigiastra velatura il Canal Grande e la chiesa della Salute, e lontano, laggiù, scomparisse addirittura il canale della Zuecca; o la lenta pioggia di ottobre piovesse solingamente su quell’acqua dormiente, su quella chiesa dormiente, su quei palazzi dormienti; o il biondo sole illuminasse i tenui azzurri del cielo e le sagome fini della chiesa e circondasse l’isola di San Giorgio in un’aureola di luce; come in qualunque mattinata, Ferrante entrando nel salotto pieno di fiori, trovò donna Grazia seduta, nel vano dello stretto e lungo balcone a ogiva, guardando vagamente il paesaggio. Ella portava sempre una delle sue vestaglie di lana bianca, dalla forma di peplo, che odoravano di violetta, poichè fra le arricciature di merletto del collo, fra le morbide pieghe del petto, alla cintura, spuntavano dei freschi mazzolini di violette. Ella guardava, con gli occhi fatti quasi più grandi e un po’ vitrei dalla lunga contemplazione.

      – Che hai? – disse Ferrante, baciandole le mani.

      – Nulla – fece lei, con un piccolo sorriso.

      – Mi ami sempre?

      – Sempre, sempre.

      E un cenno largo, come ad accennare un fatto ineluttabile, accompagnò la monotonia di quella voce dove pareva si fosse infranta ogni corda di vivacità.

      – Sei triste, mi pare – disse lui, chinandosi a guardarla meglio.

      Ella sorrise ancora, senza rispondere, gli dette, con un atto gentile, uno dei suoi mazzolini di violette; egli lo prese, l’odorò e poi lo rigirò fra le dita, senza parlare.

      – Anche tu sei triste? – chiese ella, levando su la testa, con un gesto affettuoso.

      – No, cara. Venivo a chiederti se volevi uscire.

      – … Sì – disse lei, dopo una pausa, – Dove andiamo?

      – In giro – fece lui. – Dove tu vuoi.

      Invece, la voce di lui era un po’ stanca. Senza dire altro, ella si levò e passò nella sua stanza a vestirsi. Occupavano un vasto appartamento mobiliato, in uno dei magnifici palazzi del Canal Grande, dirimpetto alla chiesa di San Giorgio: appartamento mobiliato con qualche traccia del lusso antico, a cui si mescolava tutta la confusione fra comoda ed elegante del lusso moderno. Ma le stanze erano tanto grandi che parevano vuote, sempre; le finestre, i balconi erano così piccoli che la luce vi entrava scarsamente, anche nelle più limpide giornate; e malgrado i fiori di cui Grazia riempiva tutte le stanze, tutti gli angoli, tutti i tavolini, i saloni non si rianimavano, restavano freddi e muti come se fosse impossibile farvi risuscitare anche una finzione di vita. Grazia e Ferrante stavano sempre insieme; spesso, lui, per discrezione, si ritirava nella sua camera, lasciava Grazia libera; ma dopo un poco, era preso da tale insoffribile malinconia, che cercava di lei, e la trovava così insoffribilmente malinconica, che si tendevano le mani, come se l’uno dovesse salvare l’altro. Quando erano insieme, certo, di fronte a quel paesaggio grandioso ma dormiente, in quell’ambiente di cose morte e di cose moribonde, fra quei colori che erano stati vivaci ed erano pallenti, fra quel silenzio grande di uomini e di fanciulli, certo, non avevano la grande giocondità delle anime intensamente felici; ma si teneano per mano, quieti, silenziosi, senza sussulti e senza tristezza. Si ricercavano, dunque, ansiosamente, come se dovessero sempre partire per un lungo viaggio, come se dovessero iniziarsi ad un altissimo diletto spirituale, come se dovessero raccontarsi tutto un romanzo misterioso, il romanzo del proprio cuore: ma, essendo insieme, parean subito appagati, senza bisogno di dire nulla, anime che già l’ambiente aveva impregnate di sè. Così quel giorno, come tutti i giorni, solo dopo pochi minuti di assenza, donna Grazia ritornò per uscire, vestita tutta di nero, come sempre, mentre in casa era sempre vestita di bianco: sul nero vestito, qua e là, dai merletti, dalla cintura, facevan capolino i freschi mazzolini di violette.

      III.

      Andarono, per i grandi saloni, per la scalea scuriccia: un servo aprì loro il portone che dava, per tre scalini, sulla laguna. L’acqua appena appena fiottava, contro il marmo corroso. Il barcaiuolo che sedeva a prora della gondola, senza far nulla, aspettando, si levò subito e domandò qualche cosa, nel suo dolce dialetto:

      – Ha detto – spiegò Ferrante a Grazia, interrogandola – se deve togliere il felze.

      – Sì, sì – rispose ella subito – lo tolga pure; lì sotto si soffoca.

      E aspettarono: il gondoliere, con un certo moto bizzarro, essendo entrato nella negra cabina dagli ornamenti di ferro lucido, ne sollevò con le spalle tutta la parte superiore, simigliante alla gobba nera di un dromedario, al coverchio di una lunga bara di ebano dalle intarsiature artistiche e dalle finestrine microscopiche: sempre portandola sulle spalle, la depose innanzi al portone, raccomandando al servo questo negro felze. La gondola ora aveva la sua aria di barca da passeggiata, con l’elegante rostro lucido a prora, i due posti di divano, a poppa, foderati di panno nero, adorni di cordoni e di fiocchi di lana nera, sgabelli neri su cui appoggiare i piedi. Grazia e Ferrante vi si sedettero, senza dire nulla: e il gondoliere cominciò a remare verso il Rialto, senza aver loro chiesto nulla. Quel giorno lo scirocco era più pesante del solito e dava pena al respiro. Delle zàttere cariche di carbone andavano per il Canal Grande, con un moto così lento che pareva quasi indistinto; l’uomo della zàttera puntava sul fondo del canale con una lunga pertica e, facendo forza, e camminando sulla zàttera in senso inverso della corrente, la faceva avanzare.

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