Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta

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Mater dolorosa - Gerolamo Rovetta

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altro che frequentava il Palazzo era Sandrino Frascolini, il figlio del segretario comunale, il piccolo Dante di Santo Fiore, e predestinato già, col tempo, a recitar lui la parte di uno dei Due Sergenti; ma anche con Sandrino, dopo le solite parole, se Maria avesse voluto continuare a discorrere, avrebbe dovuto rifarsi da capo.

      I forestieri poi che arrivavano non avevano a litigar per il posto: il conte Eriprando, ammalato di gotta, non si poteva muovere; amiche, Maria non ne aveva, amici ce n’era stato uno soltanto, e non c’era più. Dunque era sola, sempre sola.

      In quanto a miss Dill… la rigida signora, invece di uno svago era un incubo. Nata da ricca famiglia di commercianti, alcuni rovesci finanziari l’avevano ridotta a dover cercarsi un posto per vivere; a dover servire: ma orgogliosa e bigotta, alla sventura non si era piegata con rassegnazione. Esigente, dura con gli inferiori, era cavillosa nel difendere le proprie prerogative e piena di sospetti, di diffidenze verso i padroni. Confondeva la dignità colla superbia, e segretamente invidiava la signora fino a volerle male. Riceveva da lei un regalo?… la duchessa non riusciva mai a darglielo in modo da non aggravare il peso della sua condizione. Un giorno, forse sopra pensiero, Maria non trattava l’istitutrice con tutti i riguardi? Miss Dill allora preparava uno scoppio, e lo preannunciava con musi lunghi che duravano per settimane di seguito, e un dolor di capo tanto fastidioso e tanto incomodo per tutta la casa, da spaventare colla sola minaccia. Se Maria in quei giorni avesse aperto il pianoforte, bisognava non aver cuore per tormentarla così; se Lalla faceva i gradini della scala a due a due, era come sua madre anche lei, senza cuore. Maria, per distrarla, le ordinava di uscire in carrozza? Voleva ucciderla. Non la faceva uscire? Le negava di prendere una boccata d’aria. La passera mattugiola pigolava sulle finestre? Lorenzo, Ambrogio, dovevano correre con lo schioppo a spaventarla; ma se il colpo partiva, miss Dill cadeva in convulsioni.

      La duchessa, certe volte, si trovava a due dita di perdere la pazienza; ma poi, stimando che quella ferrea natura e inflessibile fosse necessaria coll’indole vivace della figliuola, ne sopportava i difetti e le bizzarrie.

      Lalla, malgrado le cure assidue della mamma, cresceva con un certo temperamentino da mettere un po’ in apprensione. Maria era costretta a conservare sempre con lei una severità inalterabile, che impediva la tenerezza e la confidenza, mentre fra la signorina e la miss covava una guerra sorda, nascosta, ma altrettanto accanita. Uno dei maggiori difetti di Lalla era la simulazione; quella testolina capricciosa non era mai capace di dire la verità. Nei suoi trasporti infantili c’era sempre finzione od esagerazione. Esagerava il fervore delle pratiche religiose, la paura del castigo, le carezze che faceva alla mamma perchè le perdonasse i capriccetti e le scappatelle. E però, tutto ciò sommato, faceva sì che Maria fosse condannata alla più penosa solitudine: la solitudine nella famiglia.

      A distrarla, o a consolarla, non contribuivano certo le visite, frequenti da principio, poi fatte più rare, di Prospero. In quelle occasioni tutti i preti del vicinato erano a pranzo al Palazzo. Miss Dill allora faceva la garbata con don Vincenzo, e Lalla, che ricominciava a sentir la smania di attirarsi l’attenzione del pubblico, aveva sempre pronto qualche digiuno, qualche fioretto alla Madonna, che la faceva ammirare, e quasi santificare in anticipazione, da tutti quei reverendi con la bocca unta.

      Fosse per le forti attrattive del frutto proibito, o fosse anche perchè avesse finalmente aperto gli occhi su quel che era Haute-Cour, il fatto sta che il prurito della coniugale riconciliazione durava acuto, insopportabile, fra carne e pelle, al duca d’Eleda. Ma sua moglie, che lo accoglieva sempre colla più schietta cordialità, gli teneva chiusa tuttavia, e inesorabilmente, la sua cameretta; una camerettina elegante, profumata come il nido della capinera, dove, tra le spesse cortine, spuntava fuori un lettino breve, piccolo, tutto a pizzi e a ricami, un lettino candidissimo, da educanda; e il duca d’Eleda, che per quella cameretta avrebbe rinunziato con tutta l’anima a ben più vasti dominii, arrivato a Santo Fiore gaio e cerimonioso, ripartiva poi con un palmo di muso, borbottando il solito ritornello: – La maledetta non ha sangue; è una donna di ghi-ghi-ghiaccio!…

      Allora, per vendicarsi o per distrarsi, ritornava più accalorato presso la Haute-Cour, lusingandosi che sua moglie notasse come a lui, spento il focolare domestico, riuscisse facile di riscaldarsi ugualmente.

      Un’altra visita che Maria sopportava con rassegnazione era quella del marchese di Vharè. Costui, d’un marchesato un po’ dubbio, aveva i suoi possedimenti nelle vicinanze di Santo Fiore, e a Borghignano teneva casa: dissipatore vizioso, l’inverno, anzi quasi tutto l’anno, egli viveva a Monte Carlo, e solamente quando la roulette gli faceva le corna, rimpatriava per cercare un’ipoteca o per vendere, affettando un disprezzo olimpico per la provincia e i suoi abitanti.

      Non toccava ancora i trent’anni, eppure contava già molti debiti e parecchie di quelle avventure che in provincia appunto si chiamano scandali, e alla capitale des bonnes fortunes. Quantunque per altro egli fosse il babau dei mariti e dei padri, i buoni e pacifici borghesi provavano un senso di meraviglia e sgranavano gli occhi dinanzi al bel marchese apocrifo, elegante, freddo, epigrammatico, che in una notte, sulla rossa o sulla nera, sapeva perdere, senza tirare un accidente, qualche decina di mille lire, fossero magari dei creditori. Si sarebbero ben guardati dallo scontargli una cambiale: ma si compiacevano di essere con lui in buoni legami d’amicizia, e i pochi fortunati cui era concesso dalla sorte di dargli del tu, quasi se ne gloriavano, e incontrandolo per istrada lo salutavano con un ciao, gridato da un marciapiede all’altro, ciao, che suscitava invidie.

      Contuttociò la gente per bene, che non mancava nemmeno a Borghignano, lo stimava secondo il merito; e primo tra quelli il conte Della Valle; tanto che ormai tra di loro un po’ di ruggine c’era, e davvero fu un contrattempo che Giorgio lo incontrasse a Santo Fiore.

      Ormai otto o nove mesi erano scorsi dall’improvvisa partenza di Maria, e Giorgio non l’aveva più riveduta e anche le notizie gli mancavano affatto; egli le aveva scritto, ma senza averne risposta. Sua zia, la Castiglione, aveva sempre l’incarico di salutarlo e di ringraziarlo da parte della duchessa d’Eleda.

      Questo silenzio gli pareva troppo nuovo per non recare anche un po’ di meraviglia oltre al dispiacere. Maria alla fine era stata per lui come una sorella e gli era cara come una sorella. – Che cosa mai le ho fatto – pensava Giorgio – per essere trattato in tal modo? Sarò stato forse troppo vivace nel difendere Prospero; ma doveva capire che parlavo sempre a fine di bene. Basta, andrò a Santo Fiore, e Maria dovrà spiegarsi. – E allora, dovendo egli recarsi a Venezia, per un congresso del Comitato operaio, pensò di fermarsi a Santo Fiore.

      Maria era nel salotto col marchese di Vharè, quando, prima ancora che Giorgio le fosse annunziato, udì la sua voce: balzò in piedi, corse quasi fino all’uscio; ma intanto che Lorenzo, precedendo il conte, ne diceva forte il nome con quella intonazione particolare di voce colla quale i servi affezionati annunziano una visita che sanno gradita o inaspettata per i loro padroni, ella ritrovò la forza di ricomporsi. Si mostrò gentile col nuovo arrivato; ma lo fu molto più del solito col marchese di Vharè, che non aveva notata la commozione della sua ospite, costringendolo a fermarsi pel pranzo; cosa che spiacque a Giorgio moltissimo.

      Egli se ne stava ancora mezzo imbronciato, quando il rumore di due o tre usci sbatacchiati con violenza, gli fece indovinare la venuta di Lalla. Lalla, infatti, entrò poco dopo nel salotto, correndo, saltando com’era avvezza; ma appena vide il marchese di Vharè si fermò come interdetta, arrossì vergognandosi, ed ai rimproveri della mamma per quel precipizio, balbettò qualche scusa, mentre gli occhi lucidissimi e il mento tremante mostravano che le lacrime erano lì lì per spuntare. Il Vharè, per difenderla e per confortarla, la prese, chiudendola fra le ginocchia, e le chiese un bacio. Lalla abbassò allora la testolina forte sul petto, e fece un po’ di resistenza prima di cedere al marchese, che con due dita le rialzava lo scaltro visetto, per baciarla sulla bocca; ma, nonostante la resistenza fatta, quando le labbra del giovane toccarono le labbra della bambina, la piccola bocca non restò ferma sotto quel bacio, e lo ricambiò con un sussulto di tutto il corpicino. La crisalide era in via di trasformarsi

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