Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta

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Mater dolorosa - Gerolamo Rovetta

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della Nena. Il suo cervellino vagava, vagava molto lontano, e per la prima volta considerava Sandrino sotto il nuovo aspetto di conquistatore. Quella cronachetta di avvelenamenti e di gelosie prestava le ali cartilaginose ai nuovi pensieri della giovinetta, e a poco a poco l’oscuro figliuolo del segretario comunale si trasformava in un piccolo eroe da romanzo.

      Quando Lalla entrò nel teatrino dei filodrammatici, il suo occhio cercò subito la Veronica e la bella Ottavia, e invece di seguire il dramma che si svolgeva sul palcoscenico, per tutta la sera fu assorta nell’altra commedia, appena abbozzata, ma che già la fantasia compiva dei tre noti interlocutori: Alessandro, Veronica, Ottavia. E Lalla era in buon punto per assistere anche a quella commediola. I direttori dello spettacolo l’avevano fatta sedere sopra il seggiolone del sindaco, portato là in mezzo al teatro, apposta per lei. Da un lato aveva la sedia vuota, dall’altro miss Dill, che di tanto in tanto, piegava la testa verso la porta, dove, mezzo dentro e mezzo fuori, c’era don Vincenzo, più unto e più rosso del solito, colla papalina sulle ventiquattro, che faceva il moscardino col brigadiere dei carabinieri, fumando un sigaro in barba ai decretali. Ma durante le situazioni commoventi del dramma, che assorbivano la attenzione del pubblico, penetrava egli, adagio adagio, in mezzo alla folla, e, giunto alle prime sedie, toccava nel gomito miss Dill, offrendole di nascosto la scatola aperta. Miss Dill lo guardava con gli occhi bramosi, e allungava due dita, gialle, che dopo aver deviato sulla mano del prete, si sprofondavano nella tabacchiera.

      Ma la signorina, non aveva tempo di osservare quelle tenerezze, intenta com’era alle innamorate di Frascolini, sedute l’una di faccia all’altra, ai due lati opposti della platea.

      La Veronica vestiva di nero; e portava nei capelli il suo mazzolino, ormai caratteristico: quel mazzolino dai sentimentali – non ti scordar di me – ch’essa chiamava: Ferghit menichts.

      Nell’insieme, la sora Veronica somigliava moltissimo al San Luigi dell’Oratorio, composto di una testa di legno grossa e lunga, color singhiozzo, e di due assicelle in croce, coperte da una tonaca nera. Inseparabile, come il mazzolino, teneva fra le mani, nelle sere di rappresentazione, il libretto dei Due Sergenti, e, sensibilissima, nei momenti che il dramma volgeva al tenero, una goccia gialla le tremolava sotto la punta del naso.., Era una lacrima che la Veronica raccoglieva nel libro con una rapido scrollar della testa.

      Molte volte, per altro, quella furtiva lacrima era avvertita dalla bella Ottavia, che ne rideva malignamente, ricercandone la cagione in una fistola. Del resto l’Ottavia, un bel biondone davvero, sentiva più disprezzo che odio per la rivale. Fiera della sua pinguedine soda e sana, credeva fermamente che dell’amore se ne comperasse così a un tanto al peso. Guardava dall’alto al basso la sindachessa, con certe occhiate tra la sfida e la compassione, e, guardandola, allargava con le dita gli orli del busto, sempre troppo stretto per contenere le dovizie del seno, che coll’altalena della respirazione faceva soffrire il mal di mare alla fotografia del signor Niso, che luccicava, legata in oro, sulle carni fresche e rosee della sposona.

      Scarso presidio per quelle alture insidiate!

      Il Frascolini, anche dalla scena non la perdeva di vista; e quando la tela era calata, si scorgeva dai buchi del sipario il suo occhio fisso guardare, guardare, sebbene qualche volta, per forza si facesse vedere a lanciare un’occhiata assassina anche sull’altra infelice, che allora, allungava il collo voltandosi verso l’Ottavia con una faccia che voleva dire: – Ha guardato me, crepa di rabbia. – Quella corrispondenza d’amorosi sensi veniva poi interrotta, durante la recita, perchè Alessandro temeva di perdere, come si suol dire, la battuta.

      Assolto dal peccato di origine non c’era proprio malaccio nel giovane attore; a quel tanto che mancava d’arte suppliva coll’esercizio e colla persona maschia e bella.

      Tutte le contadinotte se lo contendevano, ammirandolo; e intanto celiavano sopra la Veronica e invidiavano la bella Ottavia… e Lalla vedeva quest’ultima insuperbire del suo trionfo.

      Ma dove Frascolini proprio furoreggiava, era nel finale dell’ultimo atto, dopo la famosa traversata. Compariva sulla scena coi capelli arruffati, il petto e le braccia nude, pallido in volto; e allora col fascino della voce bellissima e della parte da eroe faceva impressione anche su Lalla.

      – E così, s’è divertita?. – domandava la Nena alla padroncina, mentre l’aiutava a spogliarsi.

      – Abbastanza.

      – Ha sentito com’è bravo Alessandro?!… Ha veduto com’è bello?!… E la sindachessa col libretto della lavandaia? Smorfiosa! Ma l’Ottavia non deve aver paura di lei, nè di nessuno: è la più bella del paese. Ha notato come lo guardava?… Pareva lo volesse() mangiare coi baci! – E la Nena continuò sul medesimo argomento fino a che Lalla, volendo troncare il discorso, s’inginocchiò per dire le sue preghiere.

      – Buona notte, duchessina.

      Lalla rispose con un cenno del capo, e la cameriera, mentre usciva, vide la piccola devota ripetere tre o quattro volte, rapidamente, il segno della croce, baciare e ribaciare la medaglina della Madonna che teneva al collo. Le orazioni durarono molto tempo; i baci fervorosi furono ripetuti, si segnò ancora prima di coricarsi; ma con tutto ciò la signorina passò una notte agitatissima.

      La sua mente era presa dal giovane filodrammatico e il sonno tardava a venire. Pensava, con dispetto, alla superba sicurezza dell’Ottavia e alle parole della Nena che l’avevano offesa, quantunque alludessero alla signora Veronica.

      – Come? – non deve aver paura di lei, nè di nessuno?… – Eppure… eppure, se volessi, potrebbe diventar gelosa di me, la più bella del paese; e che dispetto, quella goffa, dovrebbe allora sentirne in cuor suo!… Ma, e se il Frascolini fosse proprio innamorato?… Che cosa si diranno mai quando si troveranno soli, lui e l’Ottavia? Diranno di volersi bene?… – Come si fa a volersi bene?… – e la mente della giovinetta si affaticava dietro un ignoto pieno di seduzioni nuove e arcane, un ignoto che il sangue cominciava allora a rivelarle.

      Pareva lo volesse mangiare coi baci!… Un bacio?… – e Lalla baciava e ribaciava le sue piccole mani, le braccia rotonde, per capire cos’erano mai, come potevano essere quei baci che mangiano. Si addormentò alla fine, ma dormì male. Vedeva muoversi una figura di uomo, avvicinarsi e allontanarsi da lei, senza mai sparire. Quell’uomo ora pareva Sandrino, ora il marchese di Vharè, poi di nuovo Sandrino come l’aveva veduto nell’ultima scena del dramma: col petto nudo, colle braccia nude, coi capelli arruffati; e si faceva sovente così vicino, che la fanciulla ne sentiva il tepore.

      XIII

      – Bada, Nando, la civetta dà il segno! – diceva, qualche giorno dopo la famosa recita di beneficenza, il Frascolini, juniore, chiuso nel casotto della ragnaia, a un giovane contadinello che gli faceva le veci d’uccellatore.

      – Bada! Sta attento!… Tira gli zimbelli! Maledetti tordi; che cos’hanno, l’accidente, stamattina, che non voglion zirlare! – E così dicendo, chinato, guardando in tralice dal finestrino, si cacciò in bocca un fischietto, soffiandovi dentro con tanta forza, da diventar rosso, enfiato. La frasconaia s’era messa in movimento: tutti gli zimbelli svolazzavano con voli brevi, continui, e i richiami, chiusi nelle gabbie, tratti in inganno dal fischietto, rispondevano confusamente coi loro canti vari e stonati.

      – Eccoli!… Son tordi!

      Tutt’e due, dentro al casotto, alzati a mezzo, non respiravano nemmeno; attenti, fissi, collo sguardo al pertugio, spiavano il momento buono: i tordi saltellando, zirlando, a mano a mano si erano fatti più vicini all’agguato, e Sandro stava già pronto, per dar la tirata, con una mano sulla corda dello spauracchio, quando da un momento all’altro, la civetta dà un inaspettato allarme col chinar del capo, i fringuelli cominciano a spionciare e i tordi fuggono spaventati.

      – Bestiaccia

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