Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta

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Mater dolorosa - Gerolamo Rovetta

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di semprevivi, con tappeti e con tende, vecchie e stinte, che di sera facevano ancor buona figura, ed era illuminato da lucerne di diverse epoche e di diverso sistema, candelabri scompagnati alti e bassi e, all’intorno, attaccati al muro con cordicelle, a due a due, tutti i fanali delle carrozze, lustri e belli che parevano di argento. Il rinfresco doveva consistere in una focaccia, paste, caffè, liquori, vino rosso, Asti spumante e castagne a lesso e arrosto; ma il cuoco, d’accordo colla Luigia, aveva preparato una sorpresa; il suo regalo di nozze agli sposi; un enorme tacchino farcito() e un croccante, rappresentante la torre di Sebastopoli, che teneva chiuso fra le mura il solito canarino. Don Vincenzo, richiesto, aveva ceduta per la festa e fatta trasportare a proprie spese la spinetta del Coro, e l’organista, che era anche maestro di scuola, veterinario, amico del sindaco, di Ambrogio, del signor Niso e nemico dichiarato del medico, suonava, con maggiore agilità in chiave di violino che in chiave di basso, il valzer, la polca, la mazurca, tutto a tempo di marcia, per non generar confusioni.

      La Pierina era vestita di bianco, come una sposa di lusso. Quel vestito era un regalo della padrona, uno de’ suoi rifiuti, che la buona ragazza avea messo da parte per tirarlo fuori appunto il dì delle nozze, e pareva nuovo, così attillato a quel suo corpo fiorente, dal quale traboccavano felicità, amore e salute.

      Quella però che più di tutte spiccava per la eleganza e lo sfarzo era la maestosa moglie del farmacista, con un bell’abito nuovo fiammante, lana e seta, color sangue di drago, scollato, da far vedere certe cose di cui Giunone sarebbe rimasta invidiosa. Il sesso maschile le era sempre vicino, d’intorno, di dietro, davanti, con un orgasmo, un calore, che veniva tutto da lei. Don Vincenzo; il quale con miss Dill sembrava prediligere un altro genere di bellezza, pure le discorreva serrato alle sottane, col naso rosso, le labbra tremanti e, se abbassava gli occhi sovente, non è che guardasse per terra. Tutto questo entusiasmo, mentre indispettiva e faceva allungare il muso a Sandrino, sollecitava invece l’amor proprio del signor Niso, più rifinito, più sfrittellato, più malandato del solito, il quale, in un cantuccio della tavola, pelava un piatto di castagne lessate, colle unghie orlate di nero, che ricordavano tutti gli empiastri della farmacia. Ed egli le pelava, quelle bollenti castagne, le pelava con ogni cura, poi le infilava colla punta del coltello e le offriva in giro alle signore. Di tanto in tanto l’Ottavia, quella sera tutta moine e carezze con lui, per ricompensarlo della spesa dell’abito, gli passava da canto, allargava la bocca, e il signor Niso v’introduceva una tigliata, scoccandole dopo qualche buffetto sull’abito per far cascare le briciole di focaccia o di zucchero, che vi s’erano fermate sopra; e, quand’ella si allontanava le teneva dietro cogli occhi, sospeso, col coltello nell’una mano e la castagna da pelare nell’altra, e pareva, dall’espressione del viso, che egli rifacesse mentalmente la somma di tutto quanto gli era costato quell’abito, di fattura, guarnizioni, fodere e stoffa.

      Ma non era l’egregio farmacista, era piuttosto la signora Veronica quella che più si doveva compiangere. Quasi non bastasse per la sua piena sventura la stoffa lana e seta, color sangue di drago, c’era di più il Frascolini, geloso e attento all’Ottavia, e che non aveva ballato o discorso con lei neppure una volta; trascuranza proprio imperdonabile, stata notata con dispiacere anche dal signor Domenico che ne fece le proprie lagnanze con Frascolini padre, nella sua triplice qualità di marito, di amico e di sindaco.

      Anche il canarino, il canarino prigioniero nella torre del croccante, giocò alla signora Veronica un tiro birbone. Appena demolita Sebastopoli, l’uccelletto, fra le risa e le grida dell’allegra comitiva, uscì vivo di sotto i minuzzoli e andò a svolazzare attorno al soffitto. Allora gli uomini, che volevano lasciar la mano alle signore, rimasero fermi, mentre la parte gentile della brigata, in sciame, correva di qua e di là, perseguitando l’innocente volatile, spaventandolo coi fazzoletti, o colle bucce delle castagne, quando si fermava sui quadri, o sulla cordicella dei fanali, o sullo stipite delle porte. Solamente la sposa, che approfittava della confusione generale per lasciarsi prendere qualche piccolo acconto dal marito, e la bella Ottavia, che temeva sciupare la veste in quelle strette, si tenevano discoste, attente allo spettacolo. Il povero canarino aveva già corsa tutta la stanza, in giro, un centinaio di volte; ma dàlli e dàlli, chi la dura la vince; colpito in mezzo al corpo da una castagna, precipitò dritto in un angolo, rasentando il muro, sfinito, con le ali aperte, distese. La Veronica, ansante anche lei, e colla gocciola al naso, gli si avvicina piano piano, in punta di piedi, fa cenno alle compagne di scostarsi, e gli è addosso col fazzoletto, ma il canarino trova il verso di fuggire ancora, e volando di traverso, passa così vicino all’Ottavia, che lo prende di colpo, con tutte due le mani.

      Il baccano fu indiavolato, lo schiamazzo assordante, e le più sfacciate allusioni non rispettavano nemmeno la veste di don Vincenzo; mentre la Veronica diventava verde dalla rabbia, Sandro diventava pallido per il dispetto, e saliva un pudibondo rossore sulla fronte onorata del signor Niso.

      Lalla e miss Dill si recarono dagli sposi dopo che Maria era andata a dormire, e ciò per non lasciarla sola tutta la sera, e per non mettere in soggezione gli ospiti, finchè mangiavano il tacchino e il croccante. Infatti, quando si presentò la duchessina coll’istitutrice. la brigatella si mostrò un poco intimidita e vergognosa: nessuna sapeva più come muoversi, nè quali discorsi incominciare e i più arditi tentavano appena una scempiaggine a mezza voce, coll’aria di voler dire: – Guardatemi, che io non soffro di soggezione! – Soltanto la Nena e la sposa, l’una per dimestichezza, l’altra fatta ardita dalla felicità che le schizzava dagli occhi, furono attorno, con ogni festa, alle due signore, mentre Ambrogio guardava fra le lacrime la figliuola della sua padroncina, la guardava con le mani giunte, come la Madonna, povero vecchio, senza essere buono d’infilare una parola sola di tutta la grande poesia d’affetti che gli prorompeva dal cuore. Il sindaco, che altre volte si era trovato con Lalla, fattosi animo, ruppe il ghiaccio, e presa per mano la Veronica, con un discorsetto di circostanza la presentò alla duchessina; cosa che il signor Niso non ebbe mai il coraggio di tentare, quantunque vi fosse spinto dall’Ottavia con certi pizzicotti nelle braccia da lasciarvi il livido.

      Lalla fu amabilissima colla Veronica, forse per mortificare quell’altra, e si congratulò con lei per i bellissimi versi che la sindachessa aveva dati alle stampe in onor della sposa; versi che incominciavano così: – Bella, immortal, benefica – fiamma ai tormenti avvezza… Questa fa l’unica soddisfazione ch’ebbe la Veronica in tutta la sera; ma fu per altro una grande soddisfazione!

      Intanto, a poco a poco, l’affabilità e la scioltezza della signorina avevano rimesso il buon umore nella festicciuola. L’organista, che aveva approfittato dell’interruzione per rifarsi col vin rosso e coll’Asti spumante, ricominciò, sulla spinetta, una mazurca strisciata. Lalla e la miss, ci s’intende, non presero parte al ballonzolo, e anche don Vincenzo, che si era dato al serio, stava seduto vicino a miss Dill e le faceva una corte silenziosa, interprete e complice la tabacchiera. Ma tuttavia, se il reverendo poteva rinunciare alle occhiatacce sull’Ottavia, non sapeva dividersi da quel vinello rosso, limpido, abboccato, con una punta di sale, e, colla scusa di offrirne alla miss, se ne teneva sempre accanto un vassoio coi bicchieri colmi. Le coppie che avevano cominciato a muoversi composte, serie ed attente, volendo mostrare alle signore la loro singolare perizia, terminarono presto, eccitate dal calore del vino e dall’ardore dei sensi, a ballare per il piacere di ballare e di stringersi, a suono di musica. Composta, grave, arcigna, la signora Veronica, col suo vecchio vestito di seta nera, ballava col signor Francesco, il cuoco della duchessa, tenendosi impettita e impalata dinanzi al ballerino, col mazzetto di Verghiss che le batteva il tempo sul capo, serrata nell’abito fino al mento, perchè non potendo, pur troppo, essere impudica, come quella sporca dell’Ottavia, si sfogava sfoggiando il suo permaloso pudore di donna magra. Il signor Francesco le insegnava il modo di montare la crema e di farla spumante; ma la donna istruita aveva ben altro da osservare; teneva fissa la coda dell’occhio, augurandosi fosse avvelenata sopra Sandrino e quell’altra che, così stretti, riscaldati dall’alito e dall’ardore reciproco, avevano rifatta la pace e si scambiavano torrenti di voluttà cogli occhi, colle mani, colle ginocchia, dimentichi affatto del mondo e del signor Niso, il quale, per incarico avuto da Ambrogio, preparava lo zucchero nei bicchierini del punch con parsimonia e giusta misura. Sandrino e l’Ottavia formavano la coppia più scandalosa; peraltro

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