Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta

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Mater dolorosa - Gerolamo Rovetta

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sgualcito, rincantucciandosi quieti vicino al dottore, intento nel raccontare a Lorenzo le sue gesta del quarantotto.

      Lalla per forza aveva dovuto accettare da Ambrogio due dita di vino santo, vecchio di dieci anni e, non essendoci abituata, le ronzava nella testa e nelle orecchie, mentre si sentiva bruciare la faccia e la gola dall’afa, dal caldo che faceva là dentro. Tutte quelle persone le passavano dinanzi confusamente; ma le libere carezze degli sposi, la voluttà acre di Sandra e dell’Ottavia, dovevano per forza colpire anche i sensi della fanciulla.

      E la Nena le sussurrava all’orecchio e la faceva osservare i due gruppi. – Ma che cos’ha, padroncina, sta poco bene?…

      – No… un po’ di caldo!…

      – Ha ragione, qui dentro si soffoca; faremo aprire. Babbo… – e la Nena corse da Ambrogio, il quale, quando seppe che la padroncina aveva caldo, non domandò il permesso a nessuno e spalancò tutte le porte. L’aria pura che invase la stanza fu accolta con un grido di gioia, e le coppie dei ballerini uscirono fuori sparpagliandosi sotto il portico, e lungo i viali, in giardino. Era una sera punto fredda; c’era del resto tanto amore e tanto vino in quella gente, da sentir caldo anche sotto la neve. Soli, nello stanzone, rimasero la Veronica e il cuoco. La fiera sindachessa non lo lasciava più scappare, sperando di renderne geloso il Frascolini, che passeggiava a braccio dell’Ottavia, superba di lui e del fru fru cadenzato del suo strascico sangue di drago. Ma il signor Niso aveva finito lo zucchero, le castagne eran tutte pelate, e, tanto per non stare in ozio, imbacuccato, venne fin sulla porta ad ammirare la moglie.

      – Quel seccatore mi tiene d’occhio – disse l’Ottavia all’amico; – abbi pazienza, vo e torno. E con la maestà che le era particolare, si avvicinò scodinzolando al marito, pregandolo con una carezza di annodarle dietro la vita lo scialle con cui si era coperta. Sandrino intanto, non sapendo che fare, andò in cerca della duchessina, che del resto aveva già profondamente riverita al suo primo apparire. Essa, miracolo, non aveva miss Dill alle costole. L’inglese cominciava a soffrire d’emicrania, a star chiusa, e, per riaversi, passeggiava con don Vincenzo in giardino…

      Lalla, senza udire le parole, aveva indovinata la manovra dell’Ottavia, e perciò si sentì pungere vedendo che il giovinotto la faceva servire da comodino.

      – Bravo, signor Alessandro!… nemmeno un giro di polca!

      – Se mi fossi appena immaginato ch’ella si potesse degnare…

      – Via, via, non dica bugie; per me non c’è tempo!

      – Scherza, lei, scherza… ha sempre voglia di scherzare…

      – Ma, intanto, nemmeno un giro di polca; e questo è un fatto vero.

      – Le ripeto e le giuro, signora duchessina, se io avessi supposto, solamente supposto la sua degnazione, sarei stato tanto felice che…

      – No, no; era felice abbastanza, per non voler esserlo di più.

      Quelle due dita di vin santo non erano ancora svanite dalla testolina di Lalla, e le davano ardire, quantunque, per sua natura, non ne avesse bisogno.

      – Ma non sa, signorina Lalla, che per ballare un giro di polca con lei farei voto, come Tristano di Rocca Bruna – era questi un eroe sentimentale le cui imprese, ridotte in cinque atti, erano destinate a succedere, un giorno o l’altro, nel teatro di Santo Fiore, alle lacrimevoli vicende dei Due Sergenti – farei voto di non ballare mai più, mai più, per tutta la vita?

      Lalla, a questa scappata, rispose ridendo con un riso lungo, fresco, sonante. – Vorrei quasi provare per vederla in un bell’impiccio.

      – Ebbene, provi dunque: io le giuro di mantener la promessa. – E il giovane con la testa in fiamme per aver bevuto un po’ troppo anche lui, per il caldo, per il lungo contatto coll’Ottavia, ma più che altro per l’influenza arcana esercitata dallo sguardo vivo, appassionato, ammaliante della fanciulla, e da quella sua personcina carica di elettricità, sentiva, con quel giuramento, di essere quasi sincero.

      – Ma… e la signora Ottavia?

      – La signora Ottavia?… che c’entra?

      – No? non c’entra la signora Ottavia? davvero davvero?… Vediamo, dunque, ecco la destra, bel cavaliere, il giro di polca è concesso; ma non qui… no, no; laggiù sotto la rotonda, in giardino! – e la fanciulla si avviò di corsa, e Alessandro dietro, lungo i viali dei carpini, interrotto nel mezzo da un pergolato di glicine, eretto sopra la statua di una Cerere di marmo bianco.

      Lalla, correndo sempre, era già alla rotonda, quando si fermò di botto, indicando al compagno d’inoltrarsi adagio e di non pestar sulla ghiaia: Sandrino, trattenendo il respiro, la raggiunse in punta di piedi. La notte era chiara e serena; la luna pallida senza nubi e senza nebbia.

      – Guardi, guardi là, dietro il rosaio… la Pierina! – Alessandro guardò: dietro una siepe di rose selvatiche vide una figura bianca e, più su, il disegno tozzo di un cappello da uomo. Gl’indiscreti, pian pianino, si avvicinarono tanto da udire distintamente il mormorare sommesso delle dolci parolette e dei baci. Lalla ascoltò qualche minuto, poi, stizzita di non poter udire di più, raccolse un pugno di ghiaia e la gittò nel roseto, spaventando i due colombi, che, dopo un grido acuto della Pierina, presero il volo, attraverso le aiuole, nella direzione del palazzo.

      – Cattiva – disse Alessandro sorridendo – cattiva, cattiva!

      Lalla non rispose: seria, pensierosa, sedendosi stanca presso la Cerere, posò la fronte sul piedestallo, per sentire il freddo del marmo. Anche il giovanotto aveva perduta la voce e ritto, di contro a lei, colla testa bassa un braccio appoggiato alla statua, ammirava il contorno serpentino della fanciulla fantasticamente illuminato dalla luna, in mezzo a tutto quel mistero di ombre e di tenebra.

      – Come deve essere bello il volersi bene! – diss’egli alla fine, concludendo un discorso, pensato in due lungamente.

      – Lei dovrebbe saperlo – soggiunse Lalla alzando il capo e stringendosi attorno la mantellina con un brivido di freddo.

      – Lo indovino, lo sento; ma creda, signora duchessina, non l’ho mai provato. – Sandro capiva allora, la prima volta, che la sua passione per la bella Ottavia era desiderio, era voluttà, tuttociò insieme confuso, ma che non era l’amore; capiva, la prima volta, che l’amore non doveva, non poteva essere nè il rimorso, nè la febbre dei sensi; ma una dolcezza ineffabile, pura, tranquilla, un sentimento nobile, elevato, più forte e più sano.

      – Se lo sentisse a parlare così, mi dica, che cosa le pare che ne penserebbe la… la più bella del paese?…

      – Forse… penserebbe come me. E il nostro giro di polca? – domandò il giovane volendo cambiar discorso.

      – Eh sì, ma qui ci manca l’orchestra. È vero che i poeti con questo bel cielo, trapunto di stelle, sentirebbero l’armonia del creato; ma, sventuratamente, non può servire per musica da ballo!

      – Eppure… la sua promessa?

      – Come si fa? non avevo pensato che qui non si sentisse la musica: e poi, sa, ho imparato da lei a non essere di parola; da un mese, non mi manda più un libro.

      – Ma… io… io non…

      – Non ho tempo di pensare a lei. – Questo mi vuol dire?

      – No, no, mi creda. Se lei sapesse che cosa provo in questo momento… – e il giovane s’interruppe. Lalla

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