La rivicità di Yanez. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La rivicità di Yanez - Emilio Salgari страница 19
– Chi sei? – gridarono i due guerrieri, avvinghiandolo strettamente e gettandolo ruvidamente a terra.
– Il padrone di quella fattoria che vedete laggiú – rispose il cacciatore di topi. – Sono venuti degli uomini, mi hanno puntate delle pistole alla gola, e poi mi hanno scaraventato fuori della porta come se fossi un sacco di stracci.
– E dove fuggivi ora? – chiese il piú anziano dei due guerrieri.
– Non lo so nemmeno io – rispose il baniano. – Correvo senza una meta fissa per paura che quegli uomini mi uccidessero.
– Ve ne sono molti dentro quella casa?
– Ne ho veduti molti, ma non saprei precisarti il numero, sahib. Ero troppo spaventato.
– Non hai veduto delle armi grosse?
– Dei cannoni?
– No, no, degli strumenti strani che hanno delle canne disposte in forma di ventaglio, e che fanno un fuoco infernale.
– Sí, infatti mi parve di aver veduto qualche cosa di simile.
– Si chiamano mitragliatrici.
– Non so che bestie siano. Io non sono che un povero coltivatore, ora irreparabilmente rovinato, poiché né il rajah, né il Maharajah, né la rhani mi compenseranno della perdita della mia fattoria.
– Chi forse ti pagherà sarà il rajah – rispose il rajaputo.
– Hai detto forse, sahib.
– La guerra costa cara, ed il nostro padrone, almeno per ora, deve avere le casse vuote.
– Allora non mi rimane che di cercare di raggiungere alcuni miei parenti che posseggono pure una fattoria, ed offrire loro le mie ultime forze per non morire di fame.
– Si trovano molto lontani?
– Una trentina di miglia per lo meno – rispose il cacciatore di topi.
– Le tigri od i leopardi ti mangeranno prima di giungervi.
– Cosí avrò finito di soffrire. Ormai sono vecchio, molto vecchio.
– Ma correvi come un giovane sciacallo.
– La paura mi aveva messo le ali ai piedi.
I due rajaputi si scambiarono uno sguardo, poi quello che aveva sempre parlato, disse al compagno:
– Lasciamo andare questo disgraziato che la guerra ha messo completamente in terra.
– E se fosse una spia del Maharajah? – chiese il piú giovane rajaputo.
– Non si servirebbe certamente di gente cosí vecchia. Ormai abbiamo saputo abbastanza e questo povero uomo non potrebbe darci maggiori informazioni.
– Fa’ come vuoi.
– Vecchio, sei libero e guardati dai cattivi incontri. Tu sai che nelle jungle si nascondono non poche belve feroci sempre affamate di carne umana.
– Buona notte, sahib – disse il baniano, fingendosi commosso. – Voi siete buoni.
Poi riprese la corsa e scomparve ben presto nelle boscaglie che si estendevano al sud della capitale e che conosceva a palmo a palmo, essendo stato anche cacciatore.
Non osava dirigersi subito verso le cloache, temendo che i due rajaputi lo seguissero da lontano.
Percorse un paio di miglia, quasi sempre correndo, poi si spinse attraverso le risaie e raggiunse i bastioni.
Da quella parte non vi erano truppe. Forse Sindhia le aveva ammassate dinanzi alla foce del fiume nero.
Scivolò fra le rovine, le quali conservavano ancora un po’ di tepore, e dopo d’aver fatto un lungo giro riuscí a guadagnare il sotterraneo.
Non aveva nessuna lampada, ma già sappiamo che quello strano uomo, abituato a vivere fra le tenebre, ci vedeva quanto e forse meglio d’un gatto.
Infilò la galleria che attraversava le rotonde e si rimise a correre. Quel vecchio aveva una resistenza assolutamente incredibile.
Già stava per sboccare sulla banchina, quando udí delle fragorose scariche. Pareva che alla foce del fiume nero si fosse impegnata una grossa battaglia.
Fra le schioppettate si udivano i formidabili barriti degli elefanti ed il nitrire dei cavalli.
Il cacciatore di topi si lasciò scivolare sulla banchina, e veduto un fuoco acceso sulla riva del putrido corso d’acqua, prese subito la rincorsa, gridando:
– Non sparate!… Sono il malabaro!…
Intorno ad alcuni pezzi di legna si trovavano riuniti, come in consiglio, Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri ed il vecchio guerriero malese, che chiamavano Sambigliong.
Vedendo giungere come una bomba, e solo, il cacciatore di topi, tutti erano balzati in piedi in preda ad una vivissima emozione.
– Il Maharajah è stato preso, è vero? – gli chiese Sandokan.
– Non preso, ma si trova assediato in aperta campagna, dentro una solida fattoria, dietro le cui mura i suoi compagni potranno resistere qualche giorno.
– A quale distanza dai bastioni?
– A due miglia. Stavamo per fare raccolta di foglie pei vostri elefanti, quando le genti di Sindhia ci sono piombati addosso, e con tale rapidità, che io solo ho avuto il tempo di fuggire per portarvi la poco allegra notizia.
– Ed il bramino? – chiese Tremal-Naik.
– Anche quello si è messo in salvo. Non doveva, d’altronde, affrontare alcun pericolo essendo troppo conosciuto nei campi del rajah.
– Dimmi – disse Sandokan, il quale aveva riacquistato prontamente il suo straordinario sangue freddo – quanto potrebbe resistere il Maharajah?
– Non saprei dirvelo, gran sahib. Tutto dipende dalla tenacia e dal coraggio degli assedianti.
– Erano in molti?
– Cinque o seicento, per lo meno.
– Mentre i nostri non sono che tredici. Noi non abbiamo piú il tempo di attendere che i germi del colera si sviluppino, se pure si svilupperanno. Io già non ho mai avuto fiducia alcuna di quelle bottiglie.
Quell’olandese avrebbe fatto meglio a prepararci delle granate a mano. Che cosa dici tu, Tremal-Naik?
– Lo credo anch’io – rispose il cacciatore della Jungla nera.
– Che cosa dobbiamo decidere? Noi non possiamo piú rimanere qui, anche perché gli elefanti ed i cavalli sono alle prese colla fame. Prima che si indeboliscano completamente, serviamocene.
Faremo