La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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La rivicità di Yanez - Emilio Salgari

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stette un momento silenzioso, colla fronte aggrottata, poi si diresse verso il falò che ardeva sulla riva destra del fiume fangoso, per comunicare a Sandokan le buone nuove.

      CAPITOLO IV. L ‘ASSEDIO

      Non fu che dopo la mezzanotte che Yanez ed il cacciatore di topi, seguiti dall’erculeo rajaputo e dai dodici montanari di Sadhja, si misero in marcia per tentare di procurare degli alimenti alle povere bestie, le quali, durante la giornata, avevano barrito e nitrito senza interruzione.

      Si erano muniti di due torce ed erano tutti armati di carabine, di pistole e di scimitarre.

      Il drappello costeggiò per oltre due miglia il pigro fiume nero che frusciava invece di gorgogliare, poi entrarono in una delle tante rotonde destinate a raccogliere le acque.

      Il cacciatore di topi aveva già fatto un segno su una parete per non ingannarsi, quindi poteva ormai procedere tranquillo attraverso le gallerie superiori che si estendevano sopra l’immensa arcata e che si diramavano per la città.

      – Quanto impiegheremo a giungere in quella cantina? – chiese Yanez.

      – Appena una mezz’ora – rispose il baniano. – Non faremo che una semplice passeggiata, poiché le gallerie che io ho scoperte sono tutte ampie e non avremo bisogno di curvarci per passare.

      – Bada di non smarrirti.

      – Oh, no!… Nella mia testa vi è una specie di bussola che mi guida.

      – Si perdono anche i marinai talvolta.

      – Non io – rispose il cacciatore di topi con voce ferma.

      – Si sarà raffreddata la cantina?

      – Io lo spero. Quando vi sono entrato non vi era una tale temperatura da non poter resistere.

      – A quest’ora troveremo una temperatura meno ardente.

      – Anche qui non regna piú un gran caldo – disse Yanez. – Si suda un po’, questo è vero, però non dobbiamo dimenticare che siamo nel gran paese del sole.

      Cosí parlando avevano attraversato un ampio corridoio, cosparso di sabbia asciutta che spandeva un odore nauseabondo quantunque fosse bianchissima, ed erano giunti in un’altra rotonda, capace di contenere anche trenta persone.

      Doveva essere stata anche quella abitata dai piú miserabili abitanti della capitale, poiché anche là dentro si vedevano mucchi di luridi stracci che dovevano aver servito come letti, delle foglie secche e dei pezzi di legna accatastati con una certa cura.

      – Ancora due e poi sboccheremo nella cantina, o meglio nel sotterraneo scavato sotto qualche grande palazzo – disse il baniano.

      – Anche questo fogliame secco può servire pei cavalli se non per gli elefanti – disse il Maharajah, il quale tutto osservava minutamente.

      – L’avevo pensato anch’io, Altezza – rispose il cacciatore di topi.

      – Nelle altre rotonde ne hai veduto?

      – Sí, e anzi l’ultima è ben provvista.

      – Buono a sapersi.

      – Disgraziatamente gli animali da nutrirsi sono troppi.

      – Dimmi la tua idea franca e precisa. Nelle nostre condizioni che cosa faresti?

      – Io non mi moverei di qui finché ci sono cavalli, elefanti e topi da divorare. Sindhia finirà per stancarsi e se ne andrà.

      – E noi a piedi?

      – Non so che cosa dire, Altezza. Voi siete altri uomini, mentre io potrei rimanere assediato per anni ed anni senza morire di fame. D’altronde vi siete persuaso che i topi, bene arrostiti, non sono poi da disprezzarsi.

      – Oh, no, ma finirebbero per nauseare – rispose Yanez.

      Il baniano alzò le spalle e continuò la marcia, con maggior rapidità, sbattendo, di quando in quando, a terra la torcia che portava.

      Il drappello percorse altre lunghissime gallerie che né i secoli né l’umidità avevano guastate, tutte ampie e discretamente arieggiate. Regnava però un calore ancora intenso prodotto dall’enorme ammasso di carboni che aveva coperto le vie della capitale.

      Dopo un altro quarto d’ora sboccarono in una nuova rotonda, assai piú ampia della prima, e dopo pochi minuti in un’altra ancora perfettamente asciutta.

      – Siamo a poca distanza dal sotterraneo – disse il cacciatore di topi.

      Stava per imboccare un’altra galleria, l’ultima, quando si fermò tendendo gli orecchi.

      – Che cosa hai udito? – gli chiese Yanez, togliendosi dalle spalle la carabina.

      – Un passo d’uomo.

      – Tu sogni. Sarà qualche esercito di topi affamati.

      – No, Altezza: io ho troppo vissuto in queste cloache, e non posso ingannarmi.

      – Che abbiano scoperto il passaggio?

      – Non lo so: il fatto è che un uomo si avanza.

      – Io non vedo nulla.

      – La galleria qui descrive una gran curva, Altezza. Quell’uomo non tarderà a mostrarsi.

      – Andiamo innanzi o ci fermiamo?

      – Sarà meglio attendere, gran sahib.

      – Spegnete subito la torcia, allora.

      Fu prontamente obbedito, ed il drappello si strinse puntando le carabine, e deciso poi a gettarsi innanzi colle scimitarre.

      Tutti si erano messi in ascolto e non tardarono a udire un passo che l’eco della galleria trasmetteva distintamente.

      – Tu non ti eri ingannato – disse Yanez al cacciatore di topi. – Fortunatamente pare che non si tratti che d’un solo uomo.

      – Sí, d’uno solo, Altezza – rispose il baniano. – Non deve essere lontano.

      – Anzi, piú vicino di quello che potete immaginarvi. Ah!… Vedete?

      Una lampada era comparsa allo svolto della galleria, e subito l’uomo che la reggeva.

      Yanez ed il cacciatore di topi mandarono due grida:

      – Kiltar!…

      – Sí, sono io – rispose il bramino, avvicinandosi rapidamente. – Non credevo di trovarvi qui.

      – Tu sei entrato da un sotterraneo? – gli chiese Yanez.

      – Sí, d’un grande palazzo che un giorno era stato abitato, se non m’inganno, da uno dei vostri ministri.

      – Quali nuove rechi?

      – Gravi, Altezza – rispose Kiltar, il cui volto si era offuscato. – Sindhia lavora attivamente alla vostra perdita.

      – In

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