La rivicità di Yanez. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La rivicità di Yanez - Emilio Salgari страница 16
– Tu sei un brav’uomo. Avresti tanto coraggio?
– Sí, Altezza.
– Va’, parti subito. Forse sei ancora in tempo.
– Oh, i miei orecchi sono assai acuti e sapranno subito avvertirmi dell’avvicinarsi del nemico. Io spero di rivedervi presto.
Ciò detto gettò a terra un gran fascio di foglie che si era già caricato sulle spalle, e quel diavolo d’uomo, malgrado la sua età già avanzata, in un momento scomparve fra le tenebre.
– E tu, Kiltar, che cosa pensi di fare? – chiese Yanez volgendosi al bramino il quale, curvo verso terra, pareva che ascoltasse con estrema attenzione. – Rimani con noi o ritorni presso il rajah?
– Io penso sempre che posso esservi piú utile rimanendo fra gli assedianti anziché rimanere con voi.
«Chi vi informerebbe di ciò che succede nei campi di Sindhia? Nella mia qualità di bramino, io posso attraversare liberamente i campi.»
– Pure mi avevi detto che il rajah voleva fucilarti.
– Ha pensato forse che io sono un uomo troppo prezioso, ed ha abbandonata la sua idea.
«Altezza, prendo il largo anch’io. I guerrieri dell’ubriacone non devono essere lontani.
«Voi barricatevi in questa fattoria e tenete duro. Quanti colpi avete per carabina?»
– Cento.
– Vi do anche i miei. Addio, Altezza, e badate di non lasciarvi prendere perché il rajah non vi risparmierebbe.
– Eh, lo so – rispose Yanez. – Va’ anche tu.
Il bramino s’inchinò fino quasi a terra, poi prese a sua volta la corsa, per non farsi sorprendere cosí vicino ai nemici del suo signore.
Intanto i montanari e l’erculeo rajaputo avevano occupata la fattoria, la quale era stata abbandonata dai suoi proprietari.
Era una casa ad un solo piano, con quattro stanze e otto piccole finestre, che somigliavano piuttosto a feritoie.
Pochi rozzi mobili si trovavano là dentro; invece in una delle tre stanze, destinata a magazzino, i montanari avevano subito scoperto molti sacchi pieni di riso, poi fagiuoli, pesce secco per preparare il carri, ed una notevole provvista di legna.
– Gran sahib, – disse il rajaputo, il quale aveva per primo visitata minutamente la casa – se noi saremo economi, potremo tirare avanti una quindicina di giorni.
«Certo che non dovremo levarci completamente la fame.»
– E l’acqua?
– Vi è un piccolo pozzo.
– Io non credevo di aver tanta fortuna. Allora noi resisteremo a lungo.
– Molti colpi abbiamo da sparare, e questi montanari, che sono quasi tutti cacciatori, difficilmente sbagliano il bersaglio.
E poi, frugando per bene, potremo forse trovare qualche provvista di polvere. I contadini indiani ne tengono sempre.
– Cercheremo piú tardi. Ora pensiamo a barricarci. Sono solide le porte?
– Robustissime, con doppie traverse di legno durissimo.
– Ordinariamente le fattorie hanno sempre un’apertura che mette sul tetto.
– Vi è anche in questa: la scala è nella quarta stanza che serve da magazzino.
– Allora andiamo a metterci in sentinella. I montanari rimarranno qui e spareranno attraverso le finestre.
Un po’ tranquillizzato, si recò, insieme col rajaputo, nel magazzino portando la lampada che il bramino gli aveva lasciata, montò una scala di bambú e spinse in alto una piccola botola la quale peraltro lasciava un’apertura sufficiente al passaggio d’una persona.
– Non mi ero ingannato – disse Yanez allungandosi sul tetto formato di fango ben secco misto a paglia. – Di quassú potremo vedere meglio e seguire le mosse dei banditi. Per Giove, io conto ancora di dare a quelle canaglie una terribile lezione!
– Siamo in pochi ma risoluti – disse il rajaputo.
Si erano alzati sulle ginocchia e si erano messi in osservazione. L’oscurità era troppo profonda per poter distinguere delle persone, anche perché vi erano intorno alla fattoria degli immensi fichi baniani, i quali proiettavano un’ombra foltissima.
Invano i due uomini aguzzarono gli occhi e tesero gli orecchi: non videro nulla, né raccolsero alcun rumore sospetto.
Eppure era convinto che il bramino ed il cacciatore di topi non si erano ingannati.
– Che cosa dite, sahib? – chiese il rajaputo. – Io non odo altro che i grilli e non vedo che qualche rada stella scintillare fra gli strappi delle nubi.
– Taci – disse Yanez, il quale ascoltava sempre. – Anch’io ho l’udito acutissimo e gli occhi buonissimi.
– Vengono? – chiese il rajaputo, dopo un mezzo minuto di silenzio.
– Mi pare che al di là di quei fichi baniani alcune persone si muovano.
– Saranno i banditi del rajah?
– Chi vuoi che siano?
– Non so come ci abbiano seguiti. Avete fiducia voi in quel bramino?
– Assoluta.
– Io veramente ne ho poca.
– Ci ha dato già due prove di esserci amico sincero.
– Uhm!… Vedremo in seguito. Non vi pare, gran sahib, che gli uomini di Sindhia abbiano una grande paura a montare all’assalto? A quest’ora dovrebbero essere già qui.
– Sospetteranno forse che noi possediamo una di quelle mitragliatrici che li ha crudelmente decimati nelle jungle intorno agli elefanti della Tigre della Malesia.
– Gran brav’uomo quel principe bornese vostro amico.
– E terribile guerriero soprattutto. Oh, ne farà un’altra delle sue! Credi tu che non venga qui a liberarci?
– Avrà un bel da fare, gran sahib.
– Oh, non mi preoccupo. Una volta lanciato, nessuna cosa, nessun ostacolo arresta quel prode guerriero.
– Se è riuscito a passare le jungle e a raggiungerci nelle cloache, lo credo. Anche i suoi guerrieri sono uomini che non temono nessuno. La morte non ha mai fatto paura a quei bravi.
In quel momento, sotto l’oscura ombra dei grandi fichi baniani, si videro brillare delle lampade che subito si spensero.
– Hai veduto? –