La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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La rivicità di Yanez - Emilio Salgari

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e guardate anche voi.

      I due uomini si alzarono subito e spinsero lontano i loro sguardi acuti sulla vasta pianura indorata dal sole, che si rompeva solamente ai bastioni mezzo sventrati della capitale.

      A cinque o seicento metri dalla fattoria, fra le risaie, si aggiravano alcune centinaia di banditi, per la maggior parte fakiri e paria, ma non vi mancavano dei minuscoli drappelli di rajaputi.

      – Che cosa dite voi? – chiese Yanez ai due montanari.

      – Che quella gente non osa attaccarci – risposero insieme.

      – Che vogliano affamarci?

      – Sarà piú probabile, gran sahib – disse il piú vecchio dei due montanari. – Arrischiano meno.

      – Ma forse c’inganniamo – disse il portoghese, alzando rapidamente la carabina. – Ecco laggiú un fakiro che si avanza verso di noi, facendo sventolare un lurido straccio. Non lo lascerò certamente avvicinar troppo.

      Quel furfante viene a spiarci fingendosi un parlamentario. Ah, no, caro mio. Non ci s’inganna cosí.

      Un uomo infatti aveva attraversato la linea dei foltissimi fichi baniani, e si avanzava lentamente facendo ondeggiare il suo straccio che doveva essere un lurido dugbah.

      Apparteneva alla casta dei fakiri chiamati nanck-punthy, subito riconoscibili per una usanza loro particolare, la cui origine è ignota, ed è quella di portare una sola scarpa ed una sola basetta.

      Aveva in testa un largo turbante, molto sporco, adorno di sonagli d’argento, ed intorno al collo delle file di perle intrecciate con fili di ferro.

      Il vestito consisteva in un gonnellino d’un colore impossibile a definirsi ed abbastanza sbrindellato.

      Questi fakiri non sono prepotenti come i saniassi, che sono veri saccheggiatori i quali s’impongono a tutti e saccheggiano senza misericordia le ortaglie dei poveri coltivatori.

      Girano in grosse bande, battendo due bastoni l’uno contro l’altro e recitando nel medesimo tempo, con una speditezza incredibile, un pezzo di qualche vecchia leggenda indiana che cantano. Guai però se la gente non fa la carità a quei miserabili! Tutte le maledizioni che si possono immaginare piovono sul povero contadino che non ha un quarto di rupia da regalar loro.

      Il fakiro, attraversati i folti vegetali, si era fermato a circa centocinquanta metri dalla casa, come se fosse poco risoluto di andare avanti.

      Yanez fece colle mani portavoce, consegnando per un momento la sua carabina ad un montanaro, e gridò a pieni polmoni:

      – Che cosa vieni a fare tu qui?

      Il fakiro agitò disperatamente il suo bastone, poi rispose in lingua inglese abbastanza pura:

      – Mi manda il rajah Sindhia.

      – Che cosa vuole da noi? Delle palle di carabina?

      – La vostra resa.

      – E per trattare un simile affare manda da me un pezzente? Il tuo padrone vuole burlarsi di noi! Ti do subito un buon consiglio: non fare un passo innanzi perché ti fucilo!…

      – Sono un parlamentario, sahib.

      – Tu non sei altro che un bandito. Gira sulla tua unica scarpa, e va’ a dire ai tuoi compagni che siamo in cinquanta, ben provvisti di viveri e di munizioni, e che perciò non ci arrenderemo senza un terribile combattimento.

      – Abbiamo dei rajaputi.

      – Sí, quelli che erano ai miei servigi!… – urlò Yanez, perdendo la sua flemma abituale.

      – Ora sono del rajah, sahib.

      – Come!… Tu osi chiamarmi semplicemente signore e non Maharajah! E che cosa sono dunque io?

      – Un principe senza trono – rispose audacemente il fakiro.

      – Chi te lo ha detto?

      – Sindhia, e poi dove si trova la tua capitale, sahib?

      – Un pezzo nelle cloache ed un pezzo qui – rispose Yanez, il quale si tratteneva a stento.

      – Bella capitale!… – gridò il fakiro, con voce sardonica. – Vale meno della mia miserabile capanna.

      – Non so se la tua capanna sarà difesa come questa.

      – Forse piú ancora, perché è sempre piena di serpenti.

      – Bestie che non ci farebbero certamente paura. Ora penso che tu hai chiacchierato abbastanza, e ti invito per la seconda volta a girare sulla tua sola scarpa, prima che mi sfugga qualche colpo di carabina.

      – Un momento, gran sahib. Che cosa devo rispondere al rajah?

      – Che qui ci troviamo assai bene, che mangiamo, beviamo e fumiamo senza preoccupazioni. Ora, se credi, pezzente, da’ l’ordine ai rajaputi di attaccarci.

      – Occorrerebbe che sapessero quanti uomini avete voi.

      – Cinquanta, con due mitragliatrici.

      – Ah, le brutte bestie!

      – Ora vattene. È tempo!… Abbiamo parlato abbastanza. Va’, e non volgerti indietro.

      – Ci rivedremo piú presto di quello che credete, gran sahib -rispose il fakiro a gran voce. – Oh, vi strapperemo la corona!

      Yanez aveva appoggiato un dito sul grilletto della carabina, ma si arrestò dicendo:

      – Ba’, lo ucciderò un’altra volta, quando non agiterà piú quello straccio.

      Rispettiamo i parlamentari.

      Si sedette sul tetto guardandosi intorno.

      I dieci montanari che erano rimasti sotto, guidati dall’erculeo rajaputo, avevano portato via i covoni di paglia gettandoli entro una vicina risaia abbondantemente irrigata, ed avevano atterrati tutti i cespugli che si trovavano nelle vicinanze perché i nemici non potessero incendiarli.

      Né i rajaputi, né i paria, né i fakiri avevano osato sparare un solo colpo di fucile.

      Le mitragliatrici di Sandokan dovevano averli terribilmente impressionati; e per timore che se ne trovassero alcune anche nella fattoria, giudicandosi troppo deboli forse, erano rimasti assolutamente inattivi.

      Quella tranquillità peraltro non era fatta per assicurare completamente il portoghese.

      – Qui si giuoca davvero la mia corona – disse. – Se non viene Sandokan coi suoi prodi in mio aiuto, finiremo tutti malamente. Ba’, la guerra è la guerra, ed io sono cresciuto fra il rombo dei cannoni, delle spingarde e delle carabine. Vedremo!…

      CAPITOLO V. LA RITIRATA

      Il cacciatore di topi, appena lasciata la fattoria, si era slanciato a corsa furiosa, orientandosi alla meglio. Abituato a vivere fra le tenebre, non aveva bisogno di lumi per dirigersi; i suoi orecchi poi avevano una acutezza straordinaria.

      Quel vecchio possedeva una energia

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