La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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La rivicità di Yanez - Emilio Salgari

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capite le cose meglio degli altri – rispose l’ex rajah.

      – Può darsi.

      – Volete bere?

      – No, grazie non bevo che acqua.

      – L’acqua non dà nessuna forza.

      – Eppure, come vedete, Altezza, sono grasso e rubicondo, e peso forse il doppio di voi.

      Sindhia scosse la testa, tese la destra tremolante verso il ragazzo che gli aveva riempito il bicchiere, bevve qualche sorso fissando sempre l’olandese, poi gli chiese a bruciapelo:

      – Dunque si arrendono tutti?

      – Chi? – domandò Wan Horn.

      – Il Maharajah, il principe bornese e gli uomini che l’hanno accompagnato.

      – Adagio, Altezza. Che io sappia non ne hanno affatto l’intenzione.

      – E allora perché siete venuto qui?

      – Per farvi una proposta.

      – Dite, dite pure, gran dottore – disse Sindhia, sorridendo sardonicamente.

      – I miei amici lasceranno la capitale a vostra disposizione…

      – Quale capitale? – urlò Sindhia. – Non vi è piú una capitale nell’Assam.

      – Non vi mancano gli uomini per ricostruirla!…

      – E i denari?

      – Si dice che voi siete immensamente ricco.

      – Ah!… Ah!…

      – Cosí si dice nel Bengala.

      – Benissimo. Concludete, sahib.

      – Sono venuto a dirvi che il Maharajah ed il suo amico sono pronti a lasciarvi padrone del terreno, purché permettiate loro di raggiungere le montagne di Sadhja.

      – Morte di Siva!… Hanno il coraggio di farmi una simile proposta, mentre io li tengo ormai fra le mie mani?

      – Ne siete ben sicuro, Altezza?

      – Non mi sfuggiranno, ve lo dico io, sahib gran dottore. So che tutta quella gente si è rifugiata nelle grandi cloache.

      – E se quella terribile colonna, che porta sugli elefanti delle armi che voi non avete mai vedute, e che fanno delle stragi orrende, si precipitasse attraverso al vostro accampamento?

      – La fermeremo.

      – Non l’avete fermata prima quando avevate tutte le probabilità di schiacciarla.

      L’ex rajah digrignò i denti come un vecchio sciacallo, poi disse con voce piena di amarezza:

      – Sí, è vero; le mie truppe non sono resistenti malgrado l’aiuto dei rajaputi.

      Gettò via il bicchiere che teneva ancora in mano fracassandolo contro un trofeo d’armi, poi, dopo un silenzio piuttosto lungo, riprese:

      – Insomma, che cosa volete?

      – Mi pare di avervelo detto poco fa – rispose l’olandese. – Sono venuto per ottenere da voi il permesso di lasciar andare i miei amici ed i loro combattenti.

      – Voi scherzate! – disse il rajah.

      – Vi rifiutate?

      – Assolutamente.

      – Vi ripeto di guardarvi da quegli uomini che valgono per mille e piú i quali, come vi ho detto, posseggono delle mitragliatrici.

      – Io sento di essere ancora il piú forte.

      – Che cosa farete?

      – Li affamerò.

      – Hanno cinque elefanti, ed il Maharajah, prima di ritirarsi nelle cloache e di licenziare i montanari, ha fatto accumulare immense quantità di provvigioni.

      – Io non ho fretta ed aspetterò che abbiano esaurito tutto.

      – E come farete a mantenere tutta la vostra gente ora che non vi è piú una bottega in piedi, nemmeno di panettiere?

      – Vivono con niente i miei uomini, mio caro sahib gran dottore. A loro bastano il riso e le frutta delle foreste.

      – Si indeboliranno spaventosamente, ve lo dico io, appunto perché sono un medico.

      – Non ve ne preoccupate – disse il rajah.

      L’olandese si alzò e disse:

      – La mia missione è finita e quindi me ne vado.

      – E se vi trattenessi?

      – L’Olanda vi farebbe pagar cara questa perfida azione, e anche l’Inghilterra non mancherebbe d’intervenire.

      Il rajah rifletté qualche momento, poi disse:

      – Siete libero: non voglio che si sparga la voce nel vicino Bengala che io tratto i parlamentari come un re barbaro.

      – Dunque siete ben deciso a non lasciar uscire quelle persone?

      – Vi ho detto di no.

      – Altezza, i miei saluti.

      Il rajah non rispose nemmeno.

      Il dottore uscí e trovò subito il bramino accompagnato da un’altra scorta, composta tutta di rajaputi.

      – Mi guidate? – gli chiese.

      – Sí, sahib – rispose Kiltar, mettendoglisi a fianco. – Non avete concluso nulla?

      – Non vuole assolutamente lasciarli andare.

      – Lo aveva già detto anche a me.

      – Verrai con noi tu, o rimarrai qui?

      – Vi posso essere piú utile fuori che là dentro. Che cosa rappresenterei io? Una carabina di piú, ed anche pessima, non essendo mai stato un guerriero.

      – Come potremo rivederti?

      – Sono stato nelle cloache, so che vi sono delle entrate che non tutti conoscono, e spero di ricomparire ben presto.

      – Guardati dal colera.

      – Non ho mai avuto paura di quel male che…

      In quel momento l’olandese incespicò e cadde lungo disteso spaccando le due bottiglie piene di bacilli.

      – Ah, il mio liquore! – gridò. – E non ne ho piú!

      Kiltar si affrettò ad alzarlo, e dalle tasche dell’olandese uscirono dei pezzi di vetro e una certa brodaccia spessa che non tramandava nessun odore d’alcool.

      – Ho

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