La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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La rivicità di Yanez - Emilio Salgari

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stupirono peraltro un po’ quando videro l’olandese levarsi in fretta la giacca ed il panciotto e gettarli al vento.

      – Il sahib gran dottore ha caldo – disse loro Kiltar. – Egli possiede altre vesti. Tuttavia vi ordino di non toccar nulla, poiché quel sahib piú tardi potrebbe reclamare tutto nella sua qualità di parlamentario.

      I rajaputi sapendo che il bramino godeva la fiducia del rajah, si guardarono bene dal raccogliere quegli indumenti, che già non potevano avere che un meschino valore, specialmente dopo tutte quelle macchie di brodaccia giallastra che si erano rapidamente allargate sulla flanella bianca.

      Il dottore, da uomo previdente, prima di fare quel capitombolo aveva cacciato in una tasca dei calzoni la sua inseparabile pipa, la piccola provvista di tabacco ed una scatola di zolfanelli, sicché ricominciò subito a fumare.

      Il drappello attraversò il vasto accampamento, destando una certa curiosità fra gli accampati e verso le nove del mattino giunse dinanzi all’imboccatura della grande cloaca.

      All’allarme dato dai malesi e dai dayaki che vegliavano intorno alle mitragliatrici, i rajaputi, per paura di ricevere una scarica da quelle terribili armi che li avevano crudelmente decimati fra le jungle e le risaie, sostarono.

      – Sono il dottore!… – gridò l’olandese a gran voce. – Non fate fuoco.

      Poi volgendosi verso Kiltar, disse facendo un rapido cenno d’intelligenza:

      – Addio bramino.

      – Che il vostro dio vegli su di voi – rispose Kiltar.

      La scorta si allontanò subito velocemente, fermandosi solamente nei dintorni, della moschea che era stata già occupata da un grosso numero di fakiri e di paria.

      – Dove sono dunque il Maharajah e la Tigre della Malesia? – chiese Wan Horn, avanzandosi fra due file di guerrieri.

      – Vengono, signore – disse il malese rugoso che tutti chiamavano Sambigliong.

      Ed infatti non era trascorso ancora mezzo minuto che i due capi si presentarono, accompagnati da Tremal-Naik, da Kammamuri e dal cacciatore di topi.

      – Dite subito – disse Yanez all’olandese. – Siate breve.

      – La mia missione è pienamente riuscita, signori miei – rispose il signor Wan Horn. – Ho perduto la giacca ed il panciotto, ma ormai i microbi del colera si moltiplicano a milioni nell’accampamento dei banditi.

      – Avete rotte le due bottiglie?

      – Sí, Altezza, e senza rompermi, fortunatamente, il naso.

      – Avete veduto Sindhia?

      – Mi ha ricevuto nella sua tenda e abbastanza gentilmente.

      – Era ubriaco?

      – Doveva avere già molto bevuto.

      – E vi ha detto?

      – Che vi terrà assediati finché avrete mangiato l’ultimo pezzo di elefante.

      – Raccontate signor Wan Horn – disse Sandokan. – È proprio vero che ha con sé molte migliaia di combattenti?

      – Molte migliaia, sí.

      – Truppe solide?

      – Ah, io non lo credo. Il loro numero peraltro è tale da poter resistere a piú d’un assalto.

      – Dei rajaputi ve ne sono molti?

      – Io non ho visitati tutti i campi, ma il rajah si doleva delle terribili perdite subite da quei forti guerrieri nati per le battaglie.

      – Che cosa ci consigliereste di fare?

      – Di rimanere qui e d’impedire, a colpi di mitraglia, l’entrata a qualunque colonna d’attacco.

      Fra quarantotto ore tutti i campi di Sindhia saranno invasi dai bacilli del colera, ed allora vedrete che stragi.

      – Tanta fiducia avete nelle vostre coltivazioni? – chiese Yanez.

      – Vedrete fra poco gli effetti. Il bramino ci saprà dire qualche cosa.

      – Ah, non è tornato con voi?

      – No, Altezza, perché conta di esserci piú utile rimanendo fuori.

      – E come farà a spingersi fin qui?

      – Dice che conosce le cloache e molti passaggi da tutti forse ignorati.

      – Credi tu che vi siano veramente dei condotti che sbocchino nelle rotonde? – chiese Yanez al cacciatore di topi.

      – Può essere, gran sahib – rispose il baniano. – Ne ho scoperti anch’io parecchi che sboccavano nelle cantine di certi palazzi.

      – Ed allora – disse Sandokan – aspettiamo che questo famoso colera si diffonda e ci apra la strada, se pure non porterà via anche tutti noi.

      – Nella mia cassa ho dei vasi pieni di potenti disinfettanti quindi non avete nulla da temere.

      – La seduta è tolta. Andiamo a fare colazione con della carne di cavallo, che non sarà poi cattiva.

      – Anzi ottima. È quasi uguale a quella dei buoi e degli zebú – rispose l’olandese. – Ah, i miei bacilli virgola!… Altro che le palle di cannone, di mitragliatrici, di carabine e di pistole! Vedrete, vedrete!…

      – Non spaventate i nostri uomini col vostro colera – disse Yanez. – Sanno che cos’è quel malanno.

      Sandokan raccomandò al drappello delle mitragliatrici di aprire bene gli occhi, e si diresse coi suoi compagni verso un luogo della banchina dove ardeva un magro fuoco.

      In lontananza si udivano gli elefanti lamentarsi. Avevano fame, e gli assediati nulla avevano da dar loro, poiché tentare una uscita per spogliare delle frutta e delle gigantesche foglie quei banani che crescevano in buon numero presso la moschea, sarebbe stato come gettarsi in bocca ai lupi di Sindhia. Alcuni malesi avevano stesi, intorno al fuoco che mandava piú fumo che fiamme, dei vecchi tappeti, mentre altri stavano rigirando sugli spiedi del cacciatore di topi dei grossi pezzi di carne di cavallo.

      – Domani cominceremo ad abbattere un elefante – disse Sandokan, sdraiandosi presso il fuoco. – Ormai sono destinati a morire tutti di fame.

      – E come faremo a portare poi con noi le mitragliatrici? – chiese Yanez. – Anche i cavalli morranno se non possiamo provvederli di erbe.

      – Purtroppo – rispose Sandokan, corrugando la fronte. – Io non avevo pensato agli animali.

      «Ba’, vedremo che cosa saprà fare il colera. Noi resisteremo fino all’ultimo e nemmeno questa volta Sindhia ci avrà.»

      Gli arrosti, piú o meno ben cucinati, furono deposti sul coperchio di una cassa, e tutti si misero a mangiare in silenzio, assai preoccupati dell’aggravarsi della situazione.

      Ed intanto gli elefanti in lontananza barrivano furiosamente, ed i cavalli nitrivano domandando

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