La rivicità di Yanez. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La rivicità di Yanez - Emilio Salgari страница 10
Quattro rajaputi, che avevano dei giganteschi turbanti e delle barbe nerissime che coprivano loro quasi tutto il viso, vegliavano, due per parte, appoggiati alle carabine le quali avevano i cani alzati.
Il bramino fece segno all’olandese di fermarsi, poi entrò nella tenda salutato rispettosamente dalle sentinelle.
Wan Horn, immaginandosi che la conferenza sarebbe stata un po’ lunga, si sedette su un grosso tronco d’albero atterrato per alimentare i fuochi notturni e ricaricò, colla sua eterna flemma, la pipa borbottando:
– Mi si farà fare un po’ d’anticamera.
Attorno a lui, a una certa distanza, si erano radunati parecchie centinaia di soldati che avevano piú l’aspetto di straccioni che di guerrieri, ma tutti benissimo armati di fucili, di pistole e anche di scimitarre.
– Bell’esercito – borbottò l’olandese, dopo la terza aspirazione che lo avvolse in una nuvola di fumo profumato. – Dove quell’ex rajah ha raccolto questi banditi? Ve ne devono essere molti negli altri accampamenti che ho scorti presso la città distrutta. Vedremo se saranno gente cosí solida da resistere ai miei bacilli.
Aveva fatto una dozzina di aspirazioni, sempre borbottando, quando vide il bramino uscire dalla tenda.
– Sahib, – disse l’indiano avvicinandosi rapidamente – il rajah ti aspetta.
– Di che umore è?
– Stava già bevendo non so quale bottiglia di liquore giallastro. Come suo fratello, è un impenitente ubriacone che tornerà ben presto fra i pazzi.
– Sa che io sono olandese?
– Gliel’ho detto, e pare che si sia ricordato che in Europa esiste una nazione che si chiama Olanda, e che ha ricche colonie a Giava, a Sumatra ed al Borneo.
– Meno male.
Il dottore vuotò la pipa, tornò ad accomodarsi gli occhiali, e seguí il bramino entrando nella spaziosa tenda ormai piena di luce.
Su un ammasso di ricchissimi tappeti e cuscini, ammucchiati abbastanza disordinatamente, stava coricato un indiano dalla pelle appena abbronzata, che poteva avere quarant’anni come sessanta.
Il suo viso era consunto, la sua fronte solcata di rughe profonde, i suoi occhi nerissimi animati da uno strano lampo, quel lampo che si scorge nelle pupille dei pazzi.
Non aveva né barba né baffi e nemmeno capelli.
Vestiva elegantemente con una specie di lungo camice di seta bianca ricamato in oro, e stretto ai fianchi da un’alta fascia di velluto azzurro a lunghe frange d’oro, reggente una corta scimitarra coll’impugnatura d’oro scintillante di pietre preziose.
In piedi aveva scarpe di cuoio rosso colla punta assai rialzata, ed anche quelle con ricami d’oro.
– Altezza, – disse il bramino all’indiano, il quale pareva mezzo inebetito – ecco il parlamentario.
– Ah!… – fece il rajah.
Al suo fianco stava un ragazzo il quale teneva in mano una bottiglia ed un bicchiere ben capace.
– Versami – gli disse. – Ho bisogno di raccogliere le idee.
– O di offuscarle, Altezza? – chiese l’olandese. – Voi bevete troppo.
Il viso di Sindhia prese una espressione selvaggia e fissò coi suoi occhi, quasi fosforescenti, l’olandese.
– Che cosa dite voi? – chiese dopo un po’ di silenzio, facendo segno al ragazzo di porgergli subito la tazza.
– Dico che voi bevete troppo.
– Chi ve lo ha detto?
– Tutti lo sanno, anche a Calcutta.
– Ah!… Davvero? – disse il rajah con voce un po’ ironica. Afferrò il bicchiere colle mani tremanti, e lo vuotò d’un fiato.
– Voi non lo crederete, signore, eppure io ora mi sento meglio e la mia memoria mi si è risvegliata d’un tratto.
– Vi avverto che io sono uno dei piú famosi medici delle colonie olandesi – disse il signor Wan Horn, sedendosi su un cuscino senza attendere l’ordine del rajah.
– Il bramino che funziona da mio segretario me lo ha detto. Voi siete un amico del Maharajah; non è vero?
– Sí, sono un suo amico.
– E anche di quell’altro che è venuto dal sud con quella tremenda colonna che i miei uomini non sono riusciti ad arrestare. Ah, che perdite ho subito io!…
– Sí, sono amico anche di quello.
– Chi è?
– Un principe bornese che ha molte navi e migliaia e migliaia di soldati non meno valorosi di quelli che formano la colonna infernale.
– Ah! … Mi ricordo! – esclamò il rajah, stringendo le pugna. – L’ho conosciuto, ed è stato lui che ha aiutato il sahib bianco e Surama a rovesciarmi dal trono. Non credevo che avesse tanta audacia da tornar qui.
– Quell’uomo, Altezza, ha sfidato cento volte gli inglesi di Labuan e li ha quasi sempre vinti, o meglio schiacciati.
– Ha vinto anche il mio primo ministro, in non so quale lago del Borneo. Sí, lo so, è un terribile uomo e io desidererei vivamente di averlo nelle mie mani.
– Per farne che cosa, Altezza? – chiese l’olandese con accento un po’ ironico. – Vorreste dirmelo?
– Per fucilarlo insieme col Maharajah se fosse possibile. Alla piccola rhani ci penserei poi io a ridurla nell’assoluta impotenza malgrado i suoi montanari.
– Andate per le spicce, voi.
– Io devo riconquistare il mio trono, sahib.
– Che si dice spetti, per diritto, alla rhani anziché a voi.
– Chi vi ha detto questo? – urlò Sindhia con voce arrangolata.
– Conosco la storia dell’Assam, e so anche che voi avete ucciso vostro fratello con un colpo di carabina mentre gettava in aria una rupia sfidandovi a forarla.
– Quel miserabile, completamente ubriaco, dopo aver ucciso a colpi di fucile tutti i suoi parenti che banchettavano tranquillamente nel cortile d’onore del palazzo reale, voleva spegnere anche me, e l’ho abbattuto.
«Ero nel mio diritto di difendermi. Mi prometteva di lasciarmi vivere se avessi spaccata, con una palla, una rupia lanciata in aria da lui. Non fu la moneta che cadde, fu mio fratello, il quale aveva commessa l’imprudenza di darmi fra le mani una delle sue carabine.
«Che cosa avete dunque da dire voi, sahib, di questo fratricidio?»
– Io mi sarei pure difeso – rispose il prudente olandese.
Sindhia mandò un grido di gioia.
– Ecco il