Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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Col sistema di antitesi per gittare durevole il fondamento al regno della sua stirpe, io vedo Napoleone avvilupparsi dentro una rete di contradizioni, che ad ogni istante più lo stringe alla vita. La guerra contro la Russia fu bandita a nome della civiltà, e smussate appena le ugna all’orso si tira indietro salutandolo civile; nè quella la causa della guerra, nè della pace questa: causa vera dell’una come dell’altra stringergli con la mano della Francia forte la zampa, e fargli sentire, che lui aveva a sopportare nel concilio dei Re: di ora in poi come non iscritti gli sgraffi, che l’orso russo aveva, in luogo di firma, messo sotto i trattati del 1815. Pari intento il Napoleonide si propose e conseguì nella guerra d’Italia; lui sentano, e lui tremino i Re per rinnovare insieme la catena dell’autorità al genere umano; l’Austria si penta avere disprezzato il nuovo, e tradito l’antico Napoleone: perchè aborrirli parenti? Non li battezzarono signori la violenza e la frode? Quale altra origine ebbero i superbi imperiali della casa di Asburgo? Di vero, come altramente intendi la sua scesa in Italia? Il bando di affrancarla intera, e il vanto di piantare la bandiera da per tutto dove ci fosse a proteggere una causa di civiltà, e poi chiamarsi contento di una provincia sottratta agli artigli dell’aquila imperiale, e la sollecita pace? – Peggio poi, se confronti questi suoi atti con lo avventuroso valicare dell’oceano, e con tesoro inestimabile e sangue generoso di Francia, sommettere uno stato per farne dono a quella stessa casa da lui sbattuta in Italia? Certo, riesce troppo arduo penetrando nel riposto animo dello Imperatore pescarvi disegni di universale civiltà; all’opposto torna destro supporre, che la repubblica democratica, anco in parte di mondo da noi rimota, fosse un grande stecco negli occhi di lui: come mi parve vero che la libertà dove non sia attecchita da per tutto (non fa caso se più o meno secondo la natura degli uomini e la condizione delle cose) non possa durare, così troppo più reputo vero, che nè anco il dispotismo si mantenga, se da qualche spiraglio penetri raggio di libertà. – Come qui in Europa campione di sovranità di popoli, ed in America strozzatore di quelle? So bene ch’egli, e i suoi con parole solenni lo negano, ma oggimai le sue proteste per la pompa della gravità loro si convertono in argomento di giocondezza per le brigate; almeno per noi Italiani apparisce così, imperciocchè nei varii popoli varii la materia del riso; presso i nostri poeti berneschi ella consiste nel vestire di forme e di parole gravi concetti burlevoli.
Come invocare la Provvidenza vindice dei diritti conculcati dei popoli, e poi mettersi tra mezzo impedimento fra la Provvidenza ed i popoli? Come dopo che la bandiera di Francia fu vantata tutrice di civiltà rimane su ritta fra le infamie di Roma come piantata nel fango? Perchè fino all’ultimo l’impero di Francia protesse Gaeta contro il volere del popolo? Perchè si agitò tanto, giungendo fino alle minacce, non ischifando le insidie onde i membri sparsi della famiglia italiana non si riunissero? Queste le sono cose, che non si ponno negare. E a Roma perchè ci, sta adesso? -. Nè Italia egli patisce una, nè libera: una, nel presagio della sua potenza la teme come uomo e come dominatore della Francia; libera, se ne atterrisce come uomo; da per tutto dove la libertà sorga capisce che gli chiederà ragione del 2 Decembre.
Diventava il Napoleonide Re co’ popoli, adesso vorrebbe mantenersi Re co’ principi; una maniera di centauro politico; nè mai arrivò a infingersi intero, e se altri traverso le sue ambagi nol seppe capire, la colpa non è sua; se altri perfidia ad attribuirgli concetti, ch’egli in mille maniere respinse, ed in ogni occasione dichiarò proprio agli antipodi dei suoi, a lui non si può imputare: innanzi del 2 Decembre, io ricordo, come se fosse adesso, che a certo dabbene uomo il quale con parole di oro s’industriava innamorarlo della gloria del Washington rispose netto: «io sono principe e non lo posso fare.» Così è, al nipote di Carlo Buonaparte pareva la fama del Washington cosa da non giovarsene, e i Francesi uomo siffatto elessero capo della Repubblica, e dopo simile manifestazione dell’animo suo lo sopportarono. O Francesi!
I popoli, il Napoleonide, tiene in mano a guisa di carte, per giocare la partita in pro suo, e dei suoi: seguita i disegni dello Zio, il quale prese per davvero che gl’Imperatori possano tenere nelle mani la palla del mondo con la croce sopra; e neppure adesso che si sente preso dentro le morse pone giù il disegno: al contrario ci s’intora acerbo più di prima; giunto in fondo degli arzigogoli avventura l’estremo per ripigliare fiato, memore della sentenza del Macchiavello: «cosa fa cosa, e tempo la governa.»
I Moderati prima rimasero attoniti, poi lodarono, all’ultimo censurarono, adesso tentennano, piegano a destra ed a mancina; musano come le formiche; incerti intorno alla via da tenere: fino dal primo apparire della proposta del Congresso chi possedeva non dico fiore, ma briciola d’intelletto, disse cotesto espediente manca perfino della furberia di cui è copia nei trovati dei marruffini, e dei trecconi. Di vero i Moderati stracciarono co’ denti la Costituente proposta dal degno amico Giuseppe Montanelli, nè del tutto a torto, come quella, che intendeva sottoporre i principi al giudizio di un tribunale composto di deputati eletti dal popolo: ora bisognava domandare se questi principi ci si avessero a condurre spontanei, ossivvero per forza, e se spontanei, egli era chiaro come l’acqua, che non ci sarebbero andati, mentre se per forza, i popoli, i quali senza bisogno di geometria sanno come la via retta sia la brevissima, potendo, gli avrebbero mandati tutti in un fascio non mica dinanzi al tribunale della Costituente, bensì in luogo che non importa dire. Però, se in questa parte la Costituente zoppicava, stava ritta su tutte e due le gambe nell’altra: all’opposto il Congresso intimato dallo Imperatore dei Francesi a questa pecca della Costituente montanelliana ne aggiunge l’altra, ed è che i