Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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lo sanno essi? Se pure fosse così, chi troppo l›assottiglia la scavezza, sicchè quei suoi concetti, sprofondandosi tanto; veruno li vede; gli atti esterni poi così appaiono contradittorii, che il giudizio ne scende contrario alla proposta. A bene considerare e› sembra che il mondo morale si disgreghi, ed il Padrone della Francia nello intento di riordinare per sè crebbe il caos. Avendo egli offeso la democrazia, e di lei paventando, nè potendone fare a meno, da un lato suscita in lei gli appetiti della materia, dall›altro studia mortificarne lo intelletto consegnandolo in mano al prete; in qual modo ei raccattasse il prete, ho esposto di già; nè direbbe il vero chi lo negasse, imperciocchè abbia veduto io medesimo sovvenire i Gesuiti con la pecunia propria dello Imperatore… e fu come ingrassare l›ortica col guano; quasi che le erbacce lasciate a sè non prolifichino anco troppo; a questo modo operando egli immaginò logorare la democrazia con la beghineria, e lo interesse, a quel modo stesso, che vediamo consumare un diamante contrapponendogli un›altro diamante: simili contrapposti, non nuovi in Francia, anzi antichi, e sempre funesti, si reputano trovati d›ingegno acuto e la storia chiarisce che derivano da lassezza di mente; e› sono rappezzi per ischermirsi dalla molestia del minuto, non già disegni per edificare nel tempo; aggiornano i mali forse rimediabili subito, cronici poi, sicchè più tardi irrompono sovvertitori di stati. Così Caterina dei Medici mentre dondola tra Ugonotti e Cattolici consuma tutta la sua figliuolanza nell›antitesi pericolosa; le industrie, che ella adoperò, ed altri glorifica argute, mentre erano perfide, per conservare il trono alla sua famiglia approdarono a trasmettere il trono dei Valesi nei Borboni, e la notte di San Bartolommeo, tramata per la strage di tutti gli ugonotti, mise capo a tirare sopra la Francia un Re ugonotto. – Ancora le storie di Francia! levano a cielo Enrico IV, nè il mio compito mi conduce a contendergli le buone doti che gli attribuiscono, però parmi potere affermare, che fu basso pensiero quello, che lo spinse a cedere la sua fede pel trono, insegnandomi la storia come le basse voglie nei reggitori dei popoli spesso sieno colpe, e sempre errori; in questo io lo pospongo al popolano che non avrebbe renunziato alla sua amante barattandola con Parigi: rendendosi cattolico, nè volle, nè potè opprimere i suoi correligionari, e se da un lato frequentava la messa, dall’altro si governò co’ consigli del Sully. Qualunque fosse la sagacia del metodo di regno, sbagliava nel principio, dacchè ormai la fede religiosa diventata pretesto, ovvero confusa con fini politici e mire di ambizione, si era intrisa nel sangue ed infamata con mortalissime fraudolenze: non pace ormai sperabile, nè tregua; la quiete apparecchio alle armi, il furore non mancava mai. Se fossero prevalsi gli ugonotti si sarebbero ricattati; superando i cattolici vennero la revoca dell’editto di Nantes, le stragi, gli esilii spontanei o costretti, le industrie trasmigrate altrove, e le ingiurie alla fortuna pubblica, donde in breve il tracollo, il malcontento, l’aperto tumulto, la rivoluzione scapigliata, e il nabissare della monarchia dentro la voragine che si era aperta con le proprie mani.

      Col sistema di antitesi per gittare durevole il fondamento al regno della sua stirpe, io vedo Napoleone avvilupparsi dentro una rete di contradizioni, che ad ogni istante più lo stringe alla vita. La guerra contro la Russia fu bandita a nome della civiltà, e smussate appena le ugna all’orso si tira indietro salutandolo civile; nè quella la causa della guerra, nè della pace questa: causa vera dell’una come dell’altra stringergli con la mano della Francia forte la zampa, e fargli sentire, che lui aveva a sopportare nel concilio dei Re: di ora in poi come non iscritti gli sgraffi, che l’orso russo aveva, in luogo di firma, messo sotto i trattati del 1815. Pari intento il Napoleonide si propose e conseguì nella guerra d’Italia; lui sentano, e lui tremino i Re per rinnovare insieme la catena dell’autorità al genere umano; l’Austria si penta avere disprezzato il nuovo, e tradito l’antico Napoleone: perchè aborrirli parenti? Non li battezzarono signori la violenza e la frode? Quale altra origine ebbero i superbi imperiali della casa di Asburgo? Di vero, come altramente intendi la sua scesa in Italia? Il bando di affrancarla intera, e il vanto di piantare la bandiera da per tutto dove ci fosse a proteggere una causa di civiltà, e poi chiamarsi contento di una provincia sottratta agli artigli dell’aquila imperiale, e la sollecita pace? – Peggio poi, se confronti questi suoi atti con lo avventuroso valicare dell’oceano, e con tesoro inestimabile e sangue generoso di Francia, sommettere uno stato per farne dono a quella stessa casa da lui sbattuta in Italia? Certo, riesce troppo arduo penetrando nel riposto animo dello Imperatore pescarvi disegni di universale civiltà; all’opposto torna destro supporre, che la repubblica democratica, anco in parte di mondo da noi rimota, fosse un grande stecco negli occhi di lui: come mi parve vero che la libertà dove non sia attecchita da per tutto (non fa caso se più o meno secondo la natura degli uomini e la condizione delle cose) non possa durare, così troppo più reputo vero, che nè anco il dispotismo si mantenga, se da qualche spiraglio penetri raggio di libertà. – Come qui in Europa campione di sovranità di popoli, ed in America strozzatore di quelle? So bene ch’egli, e i suoi con parole solenni lo negano, ma oggimai le sue proteste per la pompa della gravità loro si convertono in argomento di giocondezza per le brigate; almeno per noi Italiani apparisce così, imperciocchè nei varii popoli varii la materia del riso; presso i nostri poeti berneschi ella consiste nel vestire di forme e di parole gravi concetti burlevoli.

      Come invocare la Provvidenza vindice dei diritti conculcati dei popoli, e poi mettersi tra mezzo impedimento fra la Provvidenza ed i popoli? Come dopo che la bandiera di Francia fu vantata tutrice di civiltà rimane su ritta fra le infamie di Roma come piantata nel fango? Perchè fino all’ultimo l’impero di Francia protesse Gaeta contro il volere del popolo? Perchè si agitò tanto, giungendo fino alle minacce, non ischifando le insidie onde i membri sparsi della famiglia italiana non si riunissero? Queste le sono cose, che non si ponno negare. E a Roma perchè ci, sta adesso? -. Nè Italia egli patisce una, nè libera: una, nel presagio della sua potenza la teme come uomo e come dominatore della Francia; libera, se ne atterrisce come uomo; da per tutto dove la libertà sorga capisce che gli chiederà ragione del 2 Decembre.

      Diventava il Napoleonide Re co’ popoli, adesso vorrebbe mantenersi Re co’ principi; una maniera di centauro politico; nè mai arrivò a infingersi intero, e se altri traverso le sue ambagi nol seppe capire, la colpa non è sua; se altri perfidia ad attribuirgli concetti, ch’egli in mille maniere respinse, ed in ogni occasione dichiarò proprio agli antipodi dei suoi, a lui non si può imputare: innanzi del 2 Decembre, io ricordo, come se fosse adesso, che a certo dabbene uomo il quale con parole di oro s’industriava innamorarlo della gloria del Washington rispose netto: «io sono principe e non lo posso fare.» Così è, al nipote di Carlo Buonaparte pareva la fama del Washington cosa da non giovarsene, e i Francesi uomo siffatto elessero capo della Repubblica, e dopo simile manifestazione dell’animo suo lo sopportarono. O Francesi!

      I popoli, il Napoleonide, tiene in mano a guisa di carte, per giocare la partita in pro suo, e dei suoi: seguita i disegni dello Zio, il quale prese per davvero che gl’Imperatori possano tenere nelle mani la palla del mondo con la croce sopra; e neppure adesso che si sente preso dentro le morse pone giù il disegno: al contrario ci s’intora acerbo più di prima; giunto in fondo degli arzigogoli avventura l’estremo per ripigliare fiato, memore della sentenza del Macchiavello: «cosa fa cosa, e tempo la governa.»

      I Moderati prima rimasero attoniti, poi lodarono, all’ultimo censurarono, adesso tentennano, piegano a destra ed a mancina; musano come le formiche; incerti intorno alla via da tenere: fino dal primo apparire della proposta del Congresso chi possedeva non dico fiore, ma briciola d’intelletto, disse cotesto espediente manca perfino della furberia di cui è copia nei trovati dei marruffini, e dei trecconi. Di vero i Moderati stracciarono co’ denti la Costituente proposta dal degno amico Giuseppe Montanelli, nè del tutto a torto, come quella, che intendeva sottoporre i principi al giudizio di un tribunale composto di deputati eletti dal popolo: ora bisognava domandare se questi principi ci si avessero a condurre spontanei, ossivvero per forza, e se spontanei, egli era chiaro come l’acqua, che non ci sarebbero andati, mentre se per forza, i popoli, i quali senza bisogno di geometria sanno come la via retta sia la brevissima, potendo, gli avrebbero mandati tutti in un fascio non mica dinanzi al tribunale della Costituente, bensì in luogo che non importa dire. Però, se in questa parte la Costituente zoppicava, stava ritta su tutte e due le gambe nell’altra: all’opposto il Congresso intimato dallo Imperatore dei Francesi a questa pecca della Costituente montanelliana ne aggiunge l’altra, ed è che i

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