Il diavolo nell'ampolla. Albertazzi Adolfo

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Il diavolo nell'ampolla - Albertazzi Adolfo

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mosse incontro; lo prese per mano gridando: – Vieni a vedere, Giorgio, cosa ti ho portato!

      E con lui andò a staccar dal chiodo la bisaccia; si sedè, con lui accanto, alla tavola, presso alla finestra; introdusse la mano nel tascapane, adagio, per aumentar l'aspettazione gioiosa.

      Ma – addio pastorino di terracotta! – : la mano ne toccò due, tre pezzi.

      Forse aveva sbattuta la bisaccia salendo in treno, o scendendo? Non importava saper il come e il perchè; era rotta, ecco!

      Ne ritrasse i pezzi, li osservò, e allora – basta un niente quando il cuore è troppo pieno – allora stringendo di più a sè il figliuolo col braccio destro, distese il braccio sinistro su la tavola, vi appoggiò la fronte e ruppe in singhiozzi.

      Il bambino taceva. Stupito, considerava la figurina infranta e il padre piangente. Ma si divincolò.

      – Aspetta, babbo! Lasciami andare! Lasciami andare!

      Sfuggì, salì a gran passi la scala. Tornò che lo sfogo non era cessato.

      – Guarda, babbo! Guarda! Questa è più bella della tua! Me la portò la mamma da Bologna, prima di morire. Non piangere! te la dò a te. Prendila.

      Il padre sollevò il capo; sorrise tra le grosse lagrime; scorse negli occhi del figliuolo, mentre gli offriva la figurina, gli occhi della sua donna; e prese a tempestarlo di baci.

      E il bambino si mise a piangere anche lui.

      IL CAMICIOTTO ROSSO

      Un discorde mugliare: richiami angusti di vitelli, come impediti da un soffocamento; aperte, disperate invocazioni di madri; risposte lunghe, come estratte dal torace profondo, di buoi. E uno strepito di campanacci e un romore di voci umane.

      Sotto l'ombria dei tigli e delle acacie arboree l'agitazione delle bestie e degli uomini da lontano appariva confusa di bianco e di scuro; lenta, folta. Ma a penetrarvi si scorgeva un comporsi e uno scomporsi di gruppi nelle vicende del mercato; un diradar della folla quando, a ogni prova di compera, si facevan andare le paia che i garzoni tiravano per le mordacchie. I sensali schioccavan le fruste; frustavano seguendo per alcuni passi; e arrestandosi nel dar l'ultimo colpo, piegavano innanzi la persona e la risollevavano quasi a ritirarsi dagli animali lasciati in libero movimento.

      – Guardate!

      Cominciava l'esaltazione dei pregi; la speculazione dubitosa dei difetti e dei vizi; e mentre i venditori attendevano con le braccia conserte o le mani aperte sul petto, il pollice entro i giri del panciotto, i compratori esaminavano a fatica i denti, sorridevano al vecchio inganno delle corna ingiallite e lustrate con olio e mallo di noce, scostavan le moscaiuole per veder del tutto la quiete degli occhi, tastavano le gambe ai malleoli se non celassero vesciconi, raccoglievano in pugno la pelle del fianco per accertarne la morbidezza, accostavano l'orecchio ad ascoltar il respiro e il cuore. E venivan, dopo, le chiassose richieste e le proposte commentate da bestemmie, da risate, da gioconde contumelie. Finchè il sensale tratteneva per un braccio l'acquirente che fingeva di voler scappare; afferrava sotto il braccio o col braccio dietro al dorso il venditore, che si fingeva irremovibile, e trascinatolo in disparte, gli parlava sottovoce e lo riconduceva all'altro. Nuova richiesta; nuova proposta.

      E si ripeteva la disamina; e si trovavano non abbastanza diritte o asciutte le gambe, non perfetto l'appaiamento. Intorno, i curiosi aspettavano. Poi, all'ultima proposta del sensale, avanzavano faccendieri e amici a sospingere il braccio del venditore, il braccio del compratore; e le due destre s'impalmavano che l'accordo non era ancora pieno. Con dinieghi aspri si svincolavano le mani; con qualche piccolo rialzo e ribasso di prezzo, concesso a stento, si riprendevano. E se, dopo tanto, il contratto era concluso, che strapponi lo consacravano! Il sensale da un lato, gli amici dall'altro, con ambedue le mani premevano alla poderosa, imprescindibile stretta finale.

      Fra i paltonieri che al mercato cercavano di buscar qualche soldo e tra gli spettatori più attenti lo Scricco non mancava mai, da poi che era tornato in paese. Ma non infastidiva nessuno. Là in mezzo sentiva meno la fame e si saziava di innocua invidia e di una speranza che solo nel suo segreto si arrovellava in minaccia. Perchè, uscito dal penitenziario dopo la lunga condanna, non l'avevano commosso troppo i mutamenti del mondo: i traffici intravveduti alle stazioni ferroviarie, i transiti delle biciclette e delle automobili per ogni strada, le fabbriche sorte anche nel paese nativo non gli avevano distolto l'animo dalle rimembranze per amareggiarlo con lo spettacolo di ricchezze e soddisfazioni impensate, di una felicità ignorata. Per lui i beni grandi e invidiabili restavan quelli per cui aveva ceduto alla colpa e sopportata la pena; erano i campi verdi e solatii; erano le case ove i sacchi di frumento, di frumentone e sementi si addossavano lungo la loggia ed ove fermentava l'uva nei tini enormi; erano le stalle ove non una delle dodici poste si lasciava mai vuota.

      Ah, il sogno della sua giovinezza! Accumular denaro che bastasse all'acquisto di un pezzo di terra, e di là estendere possedimento e fortuna, e conquistar la ricchezza che non muta per mutar di tempi e di progressi e di macchine; ed essere felice!

      Invece, ecco: ricettando e rivendendo le cose rubate, aveva perduto tutto; resistendo alla forza, aveva aggravato il delitto; tacendo ostinatamente, sempre, il nome dei complici e salvando il maggior colpevole, aveva aggravata la condanna su di sè. Diciotto anni! E intanto Sandro Molenda, Sandro il ladro, il maggior colpevole che egli aveva salvato col silenzio, si era fatto ricco lui. Possedeva fondi e bestiame!

      E tutti lo rispettavano. E scorgendo al mercato chi l'aveva salvato dalla galera, non dava segno di riconoscerlo. Temeva. Ma verrebbe l'ora di comparirgli dinanzi, guardarlo in faccia e dirgli: – Son qui!

      L'occasione venne il dì che Sandro Molenda contrattava un bel paio di bestie con un contadino di Romagna bassa. Quando chiese: – Son fidi? – , il venditore rispose: – Fidi – ; e, volto l'occhio in giro, fe' cenno a quello che tra i presenti gli parve prestarsi meglio alla prova. Poco più alto di un ragazzo, spelazzato nella faccia strana, in testa un cappellaccio da risaiolo, lo Scricco si avvicinò. Con vecchia esperienza palpò nel collo, l'un dopo l'altro, i mirabili buoi; li grattò tra le corna; avvicinò il volto ai musi abbassati tirando la cavezza; tolse le mordacchie: non si muovevano. Fidi! Guardavano lontano, come in uno stupore di sogno perduto.

      I due tentarono, strinsero il contratto.

      – Ve li guido a casa io? – disse lo Scricco a Sandro, piantandogli gli occhi in faccia, appena avvenuta la compera.

      Quasi non l'avesse mai conosciuto o lo avesse sempre conosciuto per galantuomo, Sandro disse:

      – E tu guidali.

      Poi si scostò col sensale e il venditore; rimise in tasca il grosso taccuino; e si rivolse:

      – Avvìati, che ti raggiungo.

      Un amico gli strizzò l'occhio. Mormorò:

      – Li hai consegnati a buone mani!

      Con il cavallo al passo dietro i buoi che lo Scricco conduceva, Sandro Molenda trovava sollievo in un sospetto che altra volta gli sarebbe stato gravoso.

      Quei due animali così belli e forti e bene appaiati, da esposizione, li aveva comperati per meno di quanto valevano in apparenza. Qualche difetto dovevano averlo. Quale? Li considerava; li immaginava sotto il giogo, a timone del carro o dell'aratro: quale dei due gli sfigurerebbe?

      Ma perchè impensierirsi se aveva agio a sperimentarli, e otto giorni di tempo al referto e alla restituzione? Perchè confondersi in quel pensiero? Lo minacciava ben altro pericolo: un pericolo tale che

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