Il diavolo nell'ampolla. Albertazzi Adolfo

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Il diavolo nell'ampolla - Albertazzi Adolfo

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fuori dal fango, che nelle prime furfanterie l'avevan difeso dai pericoli e dalle paure, che l'avevan sospinto, dopo, a camminare per la via diritta, lo sosterrebbero ancora. Voleva! Ma intanto non poteva concepire l'azione liberatrice se non afferrando, fermando l'idea che dal dì che aveva riveduto lo Scricco gli era balenata tremenda. Non c'era scampo; o non lo soccorreva, l'antico complice, e lo Scricco avrebbe presto o tardi rivelato a tutti l'antica complicità, la generosità che non riceveva compenso; lo soccorreva, e la gente chiederebbe per che vincoli egli fosse tenuto a un avanzo di galera, e qualcuno rinvangherebbe il passato e scoprirebbe il principio di quella fortuna che ingelosiva gli uguali d'un tempo e i nemici d'adesso. Nessuno scampo… finchè il complice, che aveva scontato per lui, viveva. Diciott'anni! Pareva ieri; e una denunzia sarebbe forse ancor valida! Diciotto anni, a Portolongone, a Castelfranco; ed era tornato, quel miserabile, a guardarlo in faccia e a dirgli con gli occhi: – Son qui. O mi aiuti, o ti smacco!

      Ma che varrebbe comperarne il silenzio? Dimostrando obbligazione a un galeotto non dimostrerebbe che ladro era stato anche lui?

      Così Sandro Molenda – lo saprebbe tutto il mondo – aveva fatti i quattrini. Ladro! Nessuno scampo finchè lo Scricco viveva!

      … D'improvviso, al passare d'un biroccino, i buoi balzarono; e lo Scricco fece appena in tempo a scansarsi, a trattenerli.

      Sandro strinse gli occhi. Nel riflettere raccoglieva sempre lo sguardo sotto le grosse ciglia. Dunque erano ombrosi? No: uno si era spaurito alla mossa repentina dell'altro, e l'altro, il destro, aveva dato un balzo innanzi come per assalire, di furia.

      Allora Sandro rincorse con lo sguardo il biroccino che era oltrepassato; vide e disse: – Ho capito. – Avevano cercato d'ingannarlo nella compera, e per la rabbia si mordeva le labbra; sfogava il segreto sgomento con imprecazioni a mezza voce contro il venditore.

      Se non che, a poco a poco, spianò il viso; gli rifulsero gli occhi e le idee torbide scomparvero quasi al seguire di una vivida speranza, o al risolversi dell'animo in un savio proposito.

      E quando furono a casa il bifolco e gli altri uomini ammirarono i buoi. Sorridente, senza interloquire, lo Scricco ammirava tutto intorno, e sembrava lieto. La casa, tozza e massiccia, attestava uno stabile benessere; la cascina era gonfia di fieno e di paglia; il campo arato, tra i diritti filari, aveva le zolle nere di concime, al sole. Sotto il portichetto una delle nuore allattava un bambino paffuto; la reggitora, nell'aia, diffondeva palate di mondiglia a una moltitudine di galline e pollastri, faraone e anitre.

      – A te! – chiamò Sandro contando pochi soldi e porgendoli allo Scricco. Questi li intascò; disse: – Vi saluto, gente! – ; e se ne andava. Ma si fermò là, dove, presso la catasta di legna e di fasci, erano ammucchiate le zucche per i porci.

      – Vuoi una zucca? – gli chiese a voce alta Sandro, per ridere.

      Rise anche lo Scricco tornando indietro; e quando gli fu presso disse a mezza voce:

      – Fareste meglio a tenermi qua da voi, per garzone.

      L'altro strinse gli occhi fissandolo; poi rispose:

      – E io ti tengo.

      Così lo Scricco fu contento. Cominciata la vendemmia, accettò volentieri di portare con gli operai più robusti i cesti e i bigonci; e sapendosi da che parte veniva, i compagni l'incitavano a raccontare. – Cosa facevi in collegio? Come ci campavi? Stavi allegro? – Egli, durante le soste dell'opera, raccontava; teneva allegra la compagnia per il modo con cui esaltava le delizie del reclusorio. Cantava anche a squarciagola una canzone che aveva sommessamente imparata a Castelfranco; e ridevano, sebbene fosse una canzone da piangere.

      Ma per il campo lo Scricco si meravigliava e godeva – e non lo diceva – delle piccole cose che ritrovava dopo tanti anni, e che gli ridestavano impressioni di sogni avuti là dentro, nella cella, alle notti grevi.

      Allodole trillavano invisibili contro il sole; cincie e lui si chiamavano, mai stanchi, d'albero in albero; le passere frullavano a frotte. Nei prati, i fiori d'inverno rompevano di lilla le verdi distese, brillavano gocce di guazza; candide famiglie di funghi spuntavano dalle radure. Si spandeva lontano l'odore dei pioppi. E al sole la dolcezza dell'aria faceva ricordare i giorni più tristi, ma passati per sempre.

      Frattanto con cautela, in segreto, il padrone si era accertato del vizio che aveva uno dei buoi acquistati da poco. Come aveva dato un balzo al passaggio di quel biroccino su cui era una donna col fazzoletto rosso, la bestia infuriava a mostrarle un fazzoletto rosso: tentava assalire cozzando. Terribile, se potesse! Era pericoloso irritarla anche là, legata alla posta. Quando i buoi han l'ira del rosso, nel sangue, guai; per ammazzare si lascerebbero ammazzare.

      Pure, Sandro non fece il referto; non ne parlò con nessuno.

      E temeva se ne accorgesse il bifolco.

      E fece fretta al sarto che, a norma dei patti, venisse a trar di cenci il garzone. Comperò anche, per il garzone, la flanella da fargli un camiciotto; rossa; e lo cuciva una delle nuore.

      – Vi nomineremo Garibaldi – dicevano ridendo le donne.

      Allo Scricco pareva di tornare ragazzo, quando aspettava ansioso il giorno della festa che indosserebbe il vestito nuovo, la camicia nuova.

      E fu un giorno di festa. Tutti, fuor che lor due – reggitore e garzone – erano ai vesperi. Giuocata che ebbero una partita alle bocce – la vinse lo Scricco – , entrarono nella stalla; lo Scricco a prender la sacchetta per andare alla foglia; Sandro per salir dalla botola nella cascina a dormire – disse – un bel sonno, tra il fieno.

      Ma appena fu disopra, il padrone ridiscese, svelto.

      Ascoltava allontanarsi la voce, che cantava la canzone di Castelfranco e, interrotta, rispondeva a uno che moveva parola dalla strada. Quindi sciolse, Sandro Molenda, il bue insano; lo spinse fuori della posta; lo avviò fuori della stalla, guatando (il camiciotto rosso non era a metà della capedagna); si nascose, svelto.

      E pochi istanti passarono, eterni.

      Chi non crederebbe a una disgrazia? Il bue insano (chi ne aveva colpa?) si era slegato, era scappato; e lui, accorso subito – troppo tardi – alle grida.

      Ecco.

      – Correte, gente! – gridò l'uomo che aveva mosso parola dalla strada.

      – Madonna, aiuto! – lo Scricco gridò: una volta sola.

      – Aiuto! – ripetè Sandro Molenda accorrendo con un forcale: – Aiuto! – E giunse… – troppo presto? – : no.

      LA CASSAFORTE DI DON FIORENZO

      Quando don Fiorenzo fu in fondo alla chiesa, si voltò, disse a bassa voce: – Signore, ve li consegno a Voi! – ; e segnatosi con la solita rapidità, uscì.

      Il cielo schiariva. Pallidamente, il sole intiepidiva l'aria invernale. E il prete si mise a sedere sul gradino per riscaldarsi un poco al sole e quasi per rischiararsi lui pure dentro, nell'animo, che una commozione strana conturbava: di letizia amareggiata da un prossimo timore; di gioia impedita da una persistente gravezza.

      – La mia cassaforte! – pensò; e sorrise. Ma il pensiero gli ricadde inerte, ed egli restò a lungo così, seguendo con lo sguardo la vicenda della nuvolaglia più o meno tenue, non ancora trapassata nè aperta da raggi del tutto vittoriosi.

      Finchè, grazie a Dio, irradiò

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