Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele

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dei tiranni. Pur fece dar mano all'assedio il primo ottobre; accampare le genti su le sponde del Crati;192 fronteggiar tutte le porte di Cosenza dai suoi figliuoli o uomini fidati, con forti schiere; drizzare i mangani contro le mura: ma par ch'ei poscia non abbia potuto esercitare nè voluto delegare il comando, nè altri abbia osato pigliarlo. Per più di venti giorni dunque si scaramucciò con disavvantaggio degli assedianti; ai quali cadean le braccia, non più sentendosi reggere da quella feroce e ferma volontà del capitano. Aggravatoglisi il morbo, perduto il sonno, Ibrahim s'andò a chiuder tutto solo in una chiesetta;193 ove spirò il sabato ventitrè ottobre, a cinquantatrè anni di età, dopo ventisette anni di tirannide e sette mesi di penitenza; trapassato come un santo, guerreggiando la guerra sacra, disponendo di tutto il contante in limosine, degli stabili in opere pie. Non prima saputo ch'ei boccheggiava, i capitani dell'oste, adunatisi in segreto, cavalcarono alla tenda di Ziadet-Allah, figliuolo del suo figliuolo Abd-Allah, e instantemente il richiesero che si mettesse alla testa dell'esercito per ricondurlo in Affrica. Al quale segno d'ammutinamento, il giovane, pigro, dissoluto, vigliacco, scellerato senza il vigor dell'avolo, tentennò: volea scaricarsi del supremo comando sopra lo zio Abu-Aghlab; ma questi gli uscì di sotto. Capitanando dunque suo malgrado la ritirata, Ziadet-Allah aspettava che tornassero al campo le gualdane sparse intorno a far preda: accordava patti ai Cosentini che di nuovo ne avean chiesto, ignorando la morte d'Ibrahim: e poi con tutto l'esercito e le rapite ricchezze e le salmerie prendea la via di Sicilia; portando seco il corpo dell'avolo in un feretro. Dice uno scrittore cristiano che al ritorno gran parte delle genti perisse per naufragio. Giunto Ziadet-Allah in Palermo, secondo Nowairi e il Baiân fuvvi sepolto Ibrahim quarantatrè giorni dopo la morte, e innalzato un monumento su la sua fossa. Secondo altri, lo recarono al Kairewân: talchè s'ignora qual delle due terre sia profanata da quelle ossa.194

      La morte d'Ibrahim, avendo liberato l'Italia meridionale senza fatica degli abitatori, vi fu tenuta necessariamente opera del Cielo. Scrive Giovanni Diacono che mentre i Napoletani stavan tra sì e no su l'augurio delle stelle cadenti, venne a confermar la rivelazione di San Severino un prigione testè fuggito di Cosenza. Narrava questi a Gregorio Console di Napoli, che, dormendo Ibrahim nella chiesa di San Michele, gli era paruto di vedere un vegliardo di maestoso aspetto, il quale minacciato di morte dal tiranno perchè osava entrar nella stanza, gli scagliò un bastone che avea alle mani e si dileguò. Destatosi, ma pur sentendosi ferito al fianco Ibrahim, richiedea di alcun prigion latino, e, addottogli il narratore, gli domandava se conoscesse il vecchio Pietro di Roma, o n'avesse mai visto la effigie; e saputo che lo si dipingea di grande statura, raso i capelli e la barba, ravvisò lo spettro del sogno, e in breve tempo gli s'ingangrenì la ferita.195 Il biografo di Sant'Elia da Castrogiovanni toglie l'impresa a San Pietro per onorarne il suo protagonista; il quale, riparato ad Amalfi, tanto pregò con lagrime, digiuni e cilizii, che il fier Brachimo, mentre assediava Cosenza e pensava a Costantinopoli, venne a morte,196 percosso non si sa come dalla orazione del sant'uomo. Un'altra tradizione italiana ripetuta da parecchi cronisti, senza macchina di iddii minori, lo fe' spacciare, all'antica, con una folgore.197

      CAPITOLO V

      Non bastando ormai alla storia il classico quadro dei fatti e delle passioni umane, se non siano anco divisati gli ordini e le opinioni che nascono da sorgenti assai remote, forza è ch'io interrompa nuovamente la cronica di Sicilia, e torni addietro parecchi secoli, per rintracciare in Asia le cagioni del mutamento di dinastia che s'apparecchiava alla morte d'Ibrahim-ibn-Ahmed. Lo apparecchiava la setta ismaeliana, della quale mi fo ad esporre l'origine, l'indole, i progressi.

      L'autorità dell'impero musulmano, si come portava sua natura mista, fu combattuta da tre maniere di nemici: le fazioni politiche, gli scismi religiosi, e le sètte partecipanti dell'uno e dell'altro. Fazioni chiamo quelle che agognavano a mutare il principe non le leggi; onde nè impugnarono durante la lotta, nè toccarono dopo la vittoria, quegli assiomi teologici e civili che costituivano l'islamismo ortodosso; cioè la fede che parea diritta al maggior numero. Parecchi Stati in fatti continuarono a rispettar come pontefice il califo, cui disubbidivano come principe. Fino gli Omeîadi di Spagna, con lor pretensioni di legittimità, esitarono per un secolo e mezzo a ripigliare il sacro titolo di Comandator dei Credenti, usurpato, dicean essi, dalla casa di Abbâs, ma pure assentitole dalla più parte dei popoli musulmani.

      Al contrario nacquero di molte eresie, i cui settatori non si proposero dominazione politica, nè vollero sostener le opinioni con la forza delle armi; ma la ragione o l'errore, la coscienza o la superbia dell'intelletto, li spinsero a propagar, dottrine diverse dalle sunnite; affrontando spesso la crudeltà dei principi, il furor della plebe, i disagi delle persecuzioni, la fatica d'una continua lotta, il pesante biasimo delle moltitudini. Svilupossi tal movimento tra la metà del primo e la metà del terzo secolo dell'egira, nella Mesopotamia e province persiane; nelle quali regioni e nel qual tempo la schiatta arabica, venendo a contatto con genti più incivilite, apprese le speculazioni dell'umano intelletto accumulate per sessanta secoli da panteisti, politeisti, dualisti, unitarii, razionalisti. Dettero materia agli scismi maomettani quelle tesi che gli uomini in tutti i tempi han proposto sì facilmente e poi sonvisi avviluppati come in laberinto di spine: la natura dell'Ente supremo; la influenza di quello sopra le azioni umane e però predestinazione, libero arbitrio, grazia; il merito della Fede e delle opere; i gastighi serbati, a chi peccasse nell'una o nelle altre; e via discorrendo. Su cotesti argomenti l'autorità sunnita s'era appigliata sovente al partito più ripugnante alla ragione. Basti in esempio il domma ortodosso della eternità del Corano, negata dai Motazeliti; i quali furono perseguitati; finchè, persuaso alcun califo abbassida, a lor volta divennero persecutori. Ma gli scandali, i tumulti, il sangue sparso per questa e altre liti teologiche, non portarono a rivolgimenti politici. Dei settantadue scismi che novera la storia ecclesiastica dei Musulmani, una ventina si mantenne entro i detti limiti della disputa; come i Kaderiti sostenitori del libero arbitrio; i Geberiti dell'opera passiva dell'uomo; i Motazeliti che faceano eterna la sola sostanza della divinità; i Sefetiti che le accomunavano nella eternità i suoi accidenti o qualità; i pigri Morgii affidantisi tutti nella Fede; i Nizâmiti che negavano la libera volontà di Dio, e s'accostavano ai filosofi materialisti; e altre sètte i cui nomi e opinioni sarebbe superfluo a ripetere.198

      Avviati ch'e' furono a libero esame, i pensatori musulmani non poteano trattenere il piè, che dalle eresie non passassero ai razionalismo. A ciò li condusse la serena luce della scienza greca, la quale cominciò a splendere nell'impero dei califi più presto che non si crederebbe. Qualche libro di filosofia era stato voltato in arabico dal greco e dal copto verso la fine del settimo secolo dell'era cristiana, primo dell'era musulmana, per opera di Khâled-ibn-Iezîd-ibn-Moa'wia, principe del sangue omeîade, soprannominato il filosofo della casa di Merwan.199 Ma accelerato l'incivilimento dai Persiani che esaltarono la casa di Abbâs,200 si diè mano a volgarizzare i pochi libri che avanzavano in Persia della letteratura indiana e nazionale dei tempi sassanidi; si pose maggiore studio a interpretare i libri scientifici dei Greci: immenso beneficio che la civiltà riconosce dai califi Mansûr (754-755) e Mamûn (813-833), e da' costui ministri della schiatta persiana di Barmek. Le scienze greche penetrarono allora nella società musulmana per triplice via: di Siria, di Persia e dell'impero bizantino; perchè in quelle due province dei califi se ne serbavano le tradizioni e qualche scritto; e dalle province bizantine s'ebbero moltissimi libri per richiesta che ne fece Mamûn agli imperatori di Costantinopoli

      Così fiorivano nella capitale abbassida, e poscia in altre città dell'impero, gli studii di medicina, astronomia, geografia, matematiche, storia naturale, logica, metafisica; e correano per le mani dei dotti le opere degli antichi filosofi, massime di Aristotile.201 Vo dir di passaggio che quelle di Empedocle d'Agrigento o d'alcun suo discepolo furono anco studiate in Oriente; e che

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<p>192</p>

Il Nowairi dice il fiume. Potrebbero esser due, poichè il Busento confluisce col Crati sotto Cosenza.

<p>193</p>

Gli altri particolari della malattia d'Ibrahim si cavano dai cronisti musulmani. Giovanni Diacono dice Ibrahim morto nella chiesa di San Michele. In quella di San Pancrazio afferma la Cronica di Bari presso il Muratori, Antiquitates Italicæ Medii Ævi, tomo I, p. 31; e il Muratori vuol correggere chiesa di San Bertario.

<p>194</p>

Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92, seg.; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Baiân, tomo I, p. 126; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi, 702, A, fog. 53 verso e 54 recto; e la traduzione francese presso De Slane, op. cit., tomo I, p. 433, 434; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 143, 144; Ibn-Wuedrân, § 6; e versione di M. Cherbonneau, nella Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 429; Ibn-Abi-Dinâr (El-Kaïrouani), MS. di Parigi, fog. 21 verso; e traduzione francese, p. 86; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 261; Johannes Diaconus, Translatio etc, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; Chronicon Barense anno 902, presso Muratori, Antiquitates Italica Medii Ævi, tomo I, pag. 31; e presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 52; MS. di Bamberg citato nella raccolta stessa di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota.

La data della morte, non scritta precisamente dall'accurato e contemporaneo Giovanni Diacono, si ritrae dai Musulmani. La recan tutti nel mese dsu-l-ka'da del 289, ma v'ha divario nel giorno: secondo il Baiân, il lunedì 17; secondo Nowairi, il sabato 18; e secondo Ibn-el-Athîr, Ibn-Wuedrân, e Abulfeda, il sabato diciannove: che tornano ai 23, 24 e 25 ottobre 902. Or poichè i giorni della settimana coincidono nel nostro calendario e nel musulmano, e il 17 dsu-l-ka'da 289 cominciò al tramonto del 22 e finì al tramonto del 23 ottobre, giorno di sabato, è evidente un lieve sbaglio in tutte quelle date. Qual che fosse stata la cagione dell'errore, mi è parso di ritenere la data del sabato 23 ottobre.

Nella versione del Nowairi, M. De Slane ha detto “quand la maladie interne dont Ibrahim souffrait, etc.;” ma confrontando con Ibn-el-Athîr e Ibn-Abi-Dinâr son certo che si debba sostituire “malattia viscerale.”

<p>195</p>

Johannes Diaconus, op. cit., presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 273.

<p>196</p>

Vita Sancti Eliæ Junioris, presso Gaetani, Vita Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 74.

<p>197</p>

Chronicon Barense, anno 902, presso Muratori, Antiquitates Italicæ Medit Ævi, tomo I, p. 31; Vita di San Bertario citata quivi in nota dal Muratori; Lupi, Protospatæ (Protospatarii) Chronicon, anno 901, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V; presso Pratilli, Historia Princ. Langob., tomo IV, p. 20; e presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 53; Romualdi Salernitani, Chronicon, anno 902, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V.

Non cito la Cronica della Cava, e la Cronica di Calabria pubblicata nella stessa raccolta di Pratilli, tomo III e tomo IV, perchè la prima è interpolata, la seconda apocrifa del tutto.

Il Martorana, Notizie Storiche, tomo I, cap. II, p. 60, pensò di impastare in uno tutti i racconti delle croniche. Scrisse che “annottando l'emiro Ibrahim intorno all'assedio, e accaduto un gran temporale con frequenti detonazioni, vi fu colpito si malamente da un fulmine elettrico, che dovè levarsi tosto dall'ossidione; poi morì di sfracello tra mille dolori entro al suo palazzo, nella città di Palermo.”

<p>198</p>

Per cotesti fatti notissimi non occorrono citazioni. I particolari si possono vedere in Sciarestani e nelle altre opere che mi occorrerà in breve di ricordare.

<p>199</p>

Questo fatto mi è occorso per la prima volta nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 75 verso. Molti di quei libri trattavano di veterinaria; e forse l'amor dei cavalli fu la prima cagione che conducesse gli Arabi nel santuario delle scienze greche.

<p>200</p>

Veggasi il Libro I, cap. VI, p. 141, 142 del 1º vol.

<p>201</p>

Veggansi in generale Hagi Khalfa nei Prolegomeni; Pococke, Specimen historiæ Arabum; Wenrich, De auctorum græcorum versionibus etc. Il Kitâb-el-Fikrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 67 verso, seg., fornisce dati importanti a chi voglia approfondire questa epoca della storia intellettuale dell'umanità.