Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele
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CAPITOLO IV
Il tiranno penitente trovò perdono e anche séguito in Sicilia. Sbarcato a Trapani164 verso la fine di maggio165 si messe a far gente: poi cavalcò alla volta di Palermo; giunsevi l'otto di luglio, ma, com'ei sembra, non entrava in città.166 Comandando tuttavia da re non ostante l'abdicazione, Ibrahim alzò in Palermo il Tribunal dei Soprusi; deputò altri a presedervi; ed egli, intento anima e corpo alla guerra sacra, conduceva a soldo marinai, largheggiava stipendii a cavalieri; talchè tra gli Affricani che avea seco e i Musulmani di Sicilia che arruolò, messe in punto un'oste poderosa. Il diciassette di luglio movea con quella sopra Taormina.167
Per fortezza di sito, numero di popolo, tradizioni, e monumenti, era ormai questa la capitale della Sicilia bizantina, degli aspri luoghi, cioè, tra l'Etna e la Peloriade, ne' quali un pugno d'uomini difendeva ancora il vessillo della Croce. Non potendo abbandonar costoro senza vergogna, Leone il Sapiente li aiutava com'ei sapea; che è a dire, poco, tardi, e strambo. Quel che conosciam di certo è che, sovrastando il pericolo pei notissimi appresti d'Ibrahim, Leone teneva i soldati dell'armata a Costantinopoli a fare i manovali nella fabbrica di due chiese e d'un monastero di eunuchi; e ch'avea già mandato a Taormina un presidio con Costantino Caramalo168 e Michele Characto; dei quali il primo fe' mala prova; e il secondo, inferiore in grado, non potè riparare, o almeno il diè a credere.169 Al medesimo tempo Leone richiedeva Elia da Castrogiovanni di pregare per la salute dell'impero, dice l'agiografo, i fatti mostrano, di andare a Taormina; ov'egli, Siciliano, con la sua fama di santità, rozza eloquenza, e venerabile aspetto, prendesse due colombi a un favo, come pareva alla corte bizantina: incoraggiare cioè i combattenti; e mondarli dalle peccata, dalle quali fermamente si credea che venisse ogni sconfitta delle armi bizantine. Elia, ottuagenario, infermo, sostenuto in piè dall'indomabile costanza dell'animo, passava incontanente col fidato suo Daniele, di Calabria in Sicilia, sotto specie di venire a baciar le ossa di San Pancrazio, primo vescovo di Taormina; e si messe all'opera con impeto. Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato; rampognava Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli omicidii, oltraggi, gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava d'Epaminonda e di Scipione, uomini di sì specchiati costumi da far arrossire i Cristiani di quei tempi corrotti; gli ricordava la temperanza e la continenza, come necessarie virtù di chi s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i savii consigli con la macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di profezia, il passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto, la carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: “Vedi; qui in questo letto si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage insanguinerà queste mura!” Un'altra fiata, andando per la piazza maggiore, s'alzava i panni a ginocchio, e richiesto del perchè, rispondea: “Veggo abbondare i rivi di sangue.” Poi girava le strade, in mutande,170 stranamente avviluppato di catene; si poneva un giogo di legno sul collo: per lui non restò di sbigottire soldati e cittadini, se punto credeano a profeti viventi. Così la religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno. Elia, fatto ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di scuoter la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.
Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter chiusi entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di Giardini, presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la combatterono con gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere musulmane balenavano; serpeggiava tra quelle un pensier di fuga; perdeasi al vento la voce d'un che aveva intonato per rincorarli le parole di lor sacro libro: “Sì che ti daremo segnalata vittoria,”171 quando Ibrahim lanciossi nella mischia. Volto a quel pio guerriero: “Perchè non reciti,” gli gridò, “cotesti altri versi: – Ecco due litiganti che disputano chi sia il Signor loro. Ma agl'Infedeli son apparecchiate vestimenta di fuoco e mazze di ferro: su le teste loro si verserà acqua bollente, da strugger viscere e pelle.”172 E quando quegli ebbe fornito i due versi: “O sommo Iddio,” ripigliava Ibrahim, “di te disputiamo quest'oggi io e gli Infedeli;” e tornò all'assalto, caricando con essolui gli uomini più valorosi e di più alto consiglio; i quali fecer impeto che spezzò l'ordinanza nemica. Allora i Cristiani a fuggire sparpagliati; i Musulmani a inseguirli su per le vette dei monti, dicon le croniche, e in fondo ai burroni. Altri scampavano su le navi; e tra questi forse i due capitani bizantini. Altri riparavansi alla città; coi quali alla rinfusa salirono il monte ed entrarono i vincitori; e incalzaronli fino alla cittadella, Castel di Mola, come oggi s'addimanda, che sovrasta all'erta di Taormina da un'erta assai più scoscesa e superba, a distanza d'un miglio. Ibrahim pur tentò un colpo di mano: impaziente di far macello tra la popolazione che s'era messa in salvo nella rôcca, mentre le ultime schiere vi si ritraean combattendo. Girata intorno intorno la costa, sparsi i suoi d'ogni lato, Ibrahim scoprì un luogo ove gli parve ch'uom potesse inerpicarsi con mani e piè; e a furia di promesse cacciò su per quei dirupi un drappello de' suoi stanziali negri; i quali superaron l'altezza, e a un tratto tuonarono agli orecchi dei guerrieri cristiani “Akbar Allah.” S'erano essi adagiati a prendere un po' di cibo, fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no; quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici. Scompigliati e confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi quel pugno di schiavi, non a difendere la strada del castello. Ibrahim dunque, udito il segno de' suoi, salì senza contrasto con le altre schiere; spezzò le porte; e comandò l'eccidio. Era la domenica, primo d'agosto novecento due.173
Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe' trucidare, con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini, i chierici, cui la legge musulmana perdona la vita; fece porre fuoco alla città; dar la caccia ai fuggenti per le foreste di que' monti ed entro le caverne; addurre a sè i cattivi, perchè niuno di cui potea comandare la morte non gli escisse di mano per umanità o avarizia altrui. Così, recatagli una gran torma nella quale si trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim chiamatolo a sè: “Cotesti tuoi capelli bianchi” gli disse “mi ti fan parlare pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in Sicilia sarai secondo a me solo.” Procopio sorrise senza rispondere; e incalzandolo il Musulmano: “Ma tu non sai chi ti parla?” replicò. “Sì; l'è il demonio per bocca tua; e indi rido.” Onde Ibrahim volto agli sgherri comandava: “Sparategli il petto, cavategli il cuore, ch'io vo' cercarvi gli arcani di cotesta mente superba:” linguaggio del vero conio di Ibrahim. Il santo vecchio, dato al supplizio, finchè potè articolare la voce, imprecò contro il tiranno, confortò i compagni al martirio. Aggiugne Giovanni Diacono, autor della narrazione, che Ibrahim, furibondo a tal costanza, digrignando i denti, arrivò a chiedere che gli dessero a mangiar il cuore; e se non compì l'orrenda jattanza, fece scannare gli altri prigioni sul cadavere del vescovo,
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Riscontrinsi: Nowairi, l. c.; Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92 recto; e MS. C, tomo IV, fog. 246 verso;
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Johannes Diaconus,
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Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Nella versione di M. De Slane la data della partenza per Nuba è posta per errore di stampa in vece del 16 il 22 di rebi' secondo, che tornerebbe al 5 aprile.
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Trapani certamente, come scrive Ibn-Khaldûn, ancorchè nel testo di Nowairi si legga Tripoli. Nelle opere arabiche quei due nomi son confusi spesso. Ma qui il testo di Nowairi non lascia luogo a dubbio, portando che Ibrahim da Nûba navigò a quella città, e che indi
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In maggio, secondo la diligentissima Cronica di Cambridge. Secondo il conto di Nowairi lo sbarco sarebbe avvenuto nella seconda metà di giugno, poichè Ibrahim si intrattenea diciassette giorni a Trapani; ma questa cifra può essere sbagliata, come lo è di certo quella del soggiorno in Palermo.
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Giovanni Diacono napoletano espressamente nota che Ibrahim sdegnasse d'entrare in Palermo, come casa propria. All'incontro Nowairi riferisce tanti particolari da non potersi mettere in forse l'andata. Il detto che Ibrahim non tenne, ma fece tenere da altri il Tribunale dei Soprusi, mi fa supporre che il tiranno fosse rimaso fuor la città vecchia.
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Riscontrinsi: Nowairi,
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Il nome di Costantino si legge nella Vita di Sant'Elia da Castrogiovanni, e gli è dato il titolo di patrizio. I cronisti bizantini scrivon che “fosse In Taormina,” al tempo della espugnazione, Caramalo, come e' pare, capitano del presidio, quantunque non gli dian titolo di patrizio, nè altro. Penso io dunque che si tratti d'un medesimo personaggio per nome Costantino, e di casato Caramalo. I bizantini non dicono nè anco il grado di Michele Characto, ma ch'egli accusò di viltà e tradimento il Caramalo, quand'entrambi si rifuggirono a Costantinopoli. Da ciò la conghiettura che il Characto fosse secondo in grado, o capitanasse qualche corpo ausiliare, il quale virtuosamente avesse combattuto contro Ibrahim. Giorgio Monaco fa supporre che Eustazio, drungario dell'armata, fosse stato inviato a Taormina o incaricato di recarle aiuto; il che ei non fece, e indi ne fu punito. Ma par che il cronista supponga questa colpa, confondendola con quella che certamente commise Eustazio, mandato contro l'armata di Leone da Tripoli di Siria.
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Riscontrinsi: Georgius Monachus,
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La versione latina ha:
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Corano, Sura XLVIII, verso 1.
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Corano, Sura XXII, versi 20 e 21.
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Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Nowairi,