Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele

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“Così sia consumato chi mi resiste.”174

      Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente del Val Demone. Ibrahim, venduti i prigioni e il bottino, e spartito il prezzo tra' suoi, mandava quattro forti schiere; una col nipote Ziadet-Allah a Mico o Vico, fortissimo castello dentro terra, non lungi, credo io, dal Capo Scaletta;175 l'altra col proprio figliuolo Abu-Aghlab, sopra Demona;176 la terza capitanata dall'altro figliuol suo Abu-Hogir177 sopra Rametta; l'ultima contro il castel di Aci178 condotta da un Sa'dûn-el-Gelowi. Delle quali castella, le due prime, sendo state sgombrate già dai terrazzani alla nuova del caso di Taormina, fruttaron solo ai Musulmani quel po' di roba che vi era rimasta. I cittadini di Rametta offrivano di pagar la gezîa; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle gli abbandonassero la rôcca; e, avutala, la smantellò, quanto potea. Similmente que' d'Aci e delle rôcche e fortezze dei contorni, fattisi insieme a chieder patti, non ottennero altro che la vita, fors'anco la libertà delle persone: e uscendo dalle mura che avean sì lungamente e gloriosamente difeso, le videro diroccar dai nemici e gittarne i sassi in mare.179 Pietro Diacono, monaco cassinese del duodecimo secolo, su quest'eccidio di Taormina fabbricò l'apocrifa narrazione accennata da noi nel primo Libro; nella quale affermò che Agrigento, Catania, Trapani, Partinico, Iccara, e le distrutte già parecchi secoli innanzi Cristo, Tindaro, Segesta, Solunto, fossero ville della Badia di Monte Cassino, quando vennero di Babilonia e d'Affrica innumerevoli Saraceni capitanati da Ibrahim a rapir quei ricchi poderi, immolando le migliaia di frati che li tenessero.180

      Ma pervenute a Costantinopoli le infauste nuove di Taormina, Leone gravemente se n'accorò, scrivon le cronache musulmane; e per sette dì, ricusava di cinger la corona, dicendo non star bene ad uom tribolato. Continuano a narrare che sorgea nell'universale il generoso pensiero di aiutare i Cristiani di Sicilia; ma che lo sturbò la voce che Ibrahim si apprestasse ad andar sopra Costantinopoli; onde Leone afforzava la capitale con un esercito e pur avviava forti schiere alla volta di Sicilia.181 Il vero è ch'egli volle mandar danaro in Calabria per levar gente e assoldare i feudatarii longobardi o franchi che passassero in Sicilia. Lo ricaviamo dalle memorie bizantine che si accordano con le musulmane nella esposizione dei sentimenti, se non de' fatti. Leone condannò a morte il Caramalo per la viltà o tradimento suo a Taormina; e ai preghi del patriarca di Costantinopoli, commutò il supplizio in professione monastica: strana gradazione di pene in una età in cui la vita monastica, assomigliata all'essere degli angioli, si tenea com'apice di perfezione cristiana!182 Vero altresì che si temesse a Costantinopoli l'assalto, sia d'Ibrahim stesso che minacciava di andarvi,183 sia del rinnegato Leone da Tripoli di Siria; il quale con cinquantaquattro navi, armate in Siria stessa e in Egitto e rinforzate di Schiavoni, nei principii della state del novecento quattro, accennò alla capitale bizantina; fe' voltar faccia a due ammiragli; e, gittatosi sopra Tessalonica, entrovvi dopo tre giorni d'assalto il trentuno luglio.184 Nell'occupazione della quale città si narra un episodio che attesta e le cure di Leone il Sapiente a favor dei Siciliani, e la scempia guisa in che si mandavano ad effetto. Rodofilo eunuco e camerier dello imperatole, viaggiando con cento libbre d'oro destinate all'esercito che dovea mandarsi in Sicilia,185 s'era intrattenuto a Tessalonica per faccende, o, com'altri scrive, per malattia da curarsi coi bagni; quando piombaron su la città i Musulmani di Siria e di Egitto. Allora ei metteva in salvo il tesoro, inviandolo in una provincia vicina; ma fatto prigione ei medesimo quand'entrò Leone da Tripoli, questi n'ebbe spia, gliene domandò conto, e, non credendo alla scusa che allegava, lo fe' morir sotto le verghe. Poi s'ebbe il danaro, minacciando d'ardere Tessalonica.186

      Ibrahim-ibn-Ahmed non soggiornò a lungo tra le ruine di Taormina. Ragunate le schiere che avea mandato alle dette fazioni, marciò sopra Messina; stettevi due dì soli; e il ventisei di ramadhan (3 settembre) tra le preci, i digiuni, le luminarie del mese santo e il fanatismo che ne crescea, valicò il Faro con tutto l'esercito. Attraversò l'ultima Calabria senza trovar nemici; sostò non lungi da Cosenza;187 dove, traendo al campo ambasciadori delle atterrite città a chieder patti, Ibrahim li intrattenne alquanti dì; poi rispose nella insolenza della vittoria: “Tornate ai vostri e dite che prenderò cura io dell'Italia e che farò degli abitatori quel che mi parrà! Speran forse resistermi il regolo greco o il franco? Così fossermi attendati qui innanzi con tutti gli eserciti! Aspettatemi dunque nelle città vostre; m'aspetti Roma, la città del vecchiarello Piero, coi suoi soldati germanici; e poi verrà l'ora di Costantinopoli!”

      Indi gli oratori a tornarsene frettolosi; e le città ad apprestarsi contro l'estrema fortuna: risarcir mura, alzare bastioni, far provigioni di vitto, ridurre ne' luoghi forti quanti arredi preziosi o derrate fossero nelle campagne. Il terrore giunse infino a Napoli. Tra gli altri provvedimenti, Gregorio console, Stefano vescovo e gli ottimati della città, deliberavano di abbattere il Castel Lucullano, come chiamavasi, a Capo Miseno: villa costruita da Mario; comperata e profusa di delizie da Lucullo; teatro di laidezze e domestici misfatti degli imperatori di Roma; vergognoso confino d'Augustolo che vissevi d'una pensione d'Odoacre (479); mutata poscia in monastero e monumento sepolcrale di San Severino (496); afforzata di mura, occupata dai Musulmani di Sicilia (846): vera tavola cronologica delle rivoluzioni della società italiana per nove secoli. I Napoletani a ragione temeano che quelle moli non fossero occupate di nuovo dalle navi di Sicilia per intercettare la navigazione del golfo. Lavorarono dunque popolarmente per cinque dì a spiantarle e a cercar tra le tombe le ossa di San Severino che volean serbare con gli altri tesori in città; domandandole l'abate del monastero dello stesso nome a Napoli. Trovatele, o credutolo, ruppero tutti in lagrime di gioia: e il dì appresso, che fu il tredici ottobre, le sacre reliquie erano condotte in processione alla città; uscendo all'incontro i magistrati, il popolo e i chierici che salmeggiavano, come parlavansi due lingue a Napoli, chi in greco e chi in latino. Per una settimana gli animi s'agitavano tra così fatte effervescenze religiose e le male nuove di Calabria, quando, a soverchiarli di paura, scherzò nel firmamento non più vista moltitudine di stelle cadenti, la notte del diciotto ottobre, secondo Giovanni Diacono, del ventisette al dire del Baiân, o più fiate in quella stagione, come par che voglia significare Ibn-Abbâr. Aggiugne questi che si sparnazzavano a dritta e a manca a somiglianza di pioggia. Le innocenti asteroidi, o meteore elettriche, o che che fossero, chè la scienza per anco nol sa, passaron tosto in buon augurio, poichè San Severino, comparso in sogno, secondo il costume, a un fanciullo, mandò a dire ai Napoletani che nulla ne temessero e si fidassero in lui che li difendea nella corte del Cielo.188 Risaputasi poscia la morte di Ibrahim, non fu in Italia chi non credesse infallibilmente averne dato segno le stelle cadenti. Un Tedesco, più scaltro, pensò che questo fenomeno, non essendosi visto in Italia sola, dovea risguardar tutti i popoli, onde probabilmente era venuto a compiere una profezia ricordata nel vangelo di San Luca;189 il che torna all'annunzio del finimondo aspettato tante volte in Cristianità. Gli Arabi d'Affrica, come se fossero stati meno superstiziosi, contentaronsi a chiamar quell'anno l'anno delle stelle: ond'ebbe tre nomi, notano i cronisti; poichè Ibrahim gli avea voluto porre anno della giustizia e altri l'avea detto della tirannide. Ma niun Musulmano potea far grave caso delle stelle cadenti, sapendo dal Corano ciò che fossero appunto: demonii curiosi, fulminati dagli Angioli, quando s'appressan troppo ad origliare alle porte del Cielo.190

      Non ostante sue minacce agli ambasciatori delle città, Ibrahim tardò a investir Cosenza. Ei che avea saputo maneggiare quell'esercito innumerevole e discorde,191 in cui fermentavano tanti odii, era sforzato adesso di restare al retroguardo per una dissenteria

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Johannes Diaconus, l. c. È verosimile e perciò non l'ho tolto via, quel vanto da cannibale che Ibrahim forse non intendeva di consumare. Nel Baiân, tomo I, p. 123, leggiamo che il 283 (896) egli avea fatto uccidere quindici persone a Taurgha nell'odierno Stato di Tripoli, e cuocerne le teste, come se volesse imbandirle a mensa; il che fu cagione che la più parte del proprio esercito lo abbandonasse. Un MS. della Biblioteca di Bamberg, dello XI secolo, citato nell'opera di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica Salernitana, accenna il martirio di San Procopio, evidentemente compendiando e alterando la narrazione di Giovanni Diacono.

<p>175</p>

Nei varii MSS. d'Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn; e Nowairi questo nome si legge Bîkesc, Benfesc, Tîfesc, Minisc, Minis, e talvolta è scritto senza punti diacritici. Edrisi pone tra Messina e Taormina, in luogo aspro e montuoso, a 15 miglia verso mezzodì da Monforte, una terra Mîkosc, Mîkos, Minis, secondo i varii MSS. Non trovo in oggi nomi somiglianti; ma il luogo risponde tra il Capo di Scaletta e il Monte Scuderi; sia Artalia, o Pozzolo Superiore, o Giampileri ec. Castello par che non ne rimanesse nè anco al tempo di Edrisi. Il nome mi par latino o greco, Vicus, Μῦχος Μηκὰς o anche Νῖκος. Mandanici, che darebbe quest'ultimo nome aggiunto a quel di Μάνδρα, non risponderebbe alla detta distanza da Monforte, che per altro può essere inesatta o sbagliata nel MS. di Edrisi.

<p>176</p>

Veggasi la nota 4 a p. 468 del I Volume, lib. II, cap. XII, intorno il sito del castel di Demona.

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Si pronunzii come Hodjr in francese, e in inglese Hojr. Non l'ho scritto Hogr perchè darebbe un suono diverso.

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Certamente El-Iagi, quantunque alcun MS. porti El-Bâgi, Et-Tâgi ec., mutando i punti diacritici, e altro dia le lettere senza punti. Edrisi lo scrive Liâgi, come si legge nei migliori MSS., dovendosi negli altri aggiugnere un punto diacritico alla lettera b e mutarla così in i, Liag o Liagi in luogo di Lebag che si è trascritta. La differenza di ortografia tra Edrisi e le memorie, di certo anteriori a lui, su le quali compilò Ibn-el-Athîr, dà luogo a una curiosa osservazione filologica. Nel X secolo, al quale van riferite quelle memorie, il nome di Ἄκις e Acis, pronunziato in Sicilia, com'oggi Iaci, con la prima vocale strisciante nel modo che avvertii per Enna, era scritto dagli Arabi col loro articolo el; probabilmente perchè i Greci l'usavano anche con l'articolo. Nella prima metà del XII secolo, in cui visse Edrisi, si dicea Li Aci con l'articolo italiano, il che può aggiugnersi alle altre prove che la lingua nostra già si parlasse in Sicilia.

<p>179</p>

Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, e Nowairi, ll. cc. Il racconto di Nowairi, che in questo luogo è particolareggiato più che gli altri, dopo aver detto di Bico, Demena e Rametta, continua: “E mandò sopra Aci, con un'altra schiera, Sa'dûn-el-Gelowi. Tutte le popolazioni insieme si rivolsero a costui, profferendo la gezîa; ma egli non l'accettò, nè volle altro patto che l'uscita loro dalle fortezze. Uscironne dunque: ed egli distrusse tutte le rôcche e castella, e ne gittò le pietre in mare.” Questo passo prova che la denominazione di Aci, al principio del X secolo, comprendesse parecchie castella; ovvero che Aci fosse come la capitale di quelle sparse sul fianco orientale dell'Etna. Tra i due supposti, terrei piuttosto il primo; perchè ai tempi di Edrisi, Aci par che fosse nominata al plurale, come dissi nella nota precedente; e in oggi v'ha infino a sette comuni di tal nome, poco lontani l'un dall'altro. Qual fosse la fortezza principale nel 902, non so. Forse Castel d'Aci, posto sopra un masso di basalto in sul mare, rimpetto alli scogli de' Ciclopi, o Faraglioni come or chiamansi: Le isole di Aci di Edrisi. Castel d'Aci è famoso nelle guerre degli Angioini contro gli Aragonesi. Potrebbe darsi ancora che la rôcca principale fosse stata sul vicin “Capo dei Molini” ove si trovano ruderi antichissimi; ovvero nel quartier della odierna Acireale, detto Patané, che ha avanzi di un edifizio romano o bizantino, e vi si è scavata una grossa pietra di lava, col noto monogramma del motto “Gesù Cristo vince” che si solea porre nelle fortezze e bandiere bizantine. Veggasi su le antichità dette l'erudito lavoro di Lionardo Vigo, Notizie storiche d'Aci Reale, cap. II.

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Veggasi il Libro I, cap. IV, p. 100, seg., e nota 1 alla pag. 102. L'episodio di Ibrahim appartiene esclusivamente a Pietro Diacono. Si conserva manoscritto nella Biblioteca di Monte Cassino; come ritraggo dalla lista messa in appendice al trattato di Pietro Diacono, De viris illustribus Cassin.; presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI. È pubblicato dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 181, seg., con note che condannano qualche bugia e mostrano gli anacronismi sconci della narrazione, compilata, come dice Pietro Diacono, su la Cosmografia di Teofane, e la “Cronologia dei Pontefici Romani.”

<p>181</p>

Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92, seg.; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso.

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Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 25, p. 860, 861; e Leo Grammaticus, Chronographia, p. 274, dicono espressamente condannati a morte, pel fatto di Taormina, il Caramalo ed Eustazio drungario dell'armata; e nominano i due monasteri diversi nei quali furono mandati per commutazion di pena. Contuttociò Giorgio Monaco nel § 29, narrando la impresa di Leone da Tripoli che seguì due anni dopo, dice mandatovi Eustazio con tutte le forze navali; il quale tornò, allegando non aver potuto trovare il nemico. Pare dunque che la condanna debba riferirsi a questo secondo fatto; ma non è inverosimile, trattandosi della corte bizantina, che dopo la prima prova sia stato tratto Eustazio dal monastero, per affidargli di nuovo l'armata e la fortuna dell'impero.

<p>183</p>

Johannis Diaconi Neapol., Translatio etc., presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62.

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Johannes Cameniata, De Excidio Thessaloniciensi, esattamente narra tutti i particolari di cui fu testimone oculare; e tra gli altri, al § 18, p. 512, la nazione dei soldati capitanati dal rinnegato Leone. Perciò il Rampoldi grossolanamente sbagliò, Annali Musulmani, scrivendo sotto l'anno 902 che i “Musulmani Aghlabiti, radunata una flotta in Affrica e in Sicilia, prendeano Lenno, e minacciavano Costantinopoli, comandati da Leone di Tripoli.” Lo seguì in questo errore il Martorana, Notizie dei Saraceni Siciliani, tomo I, cap. II, p. 69; e nota 88, p. 20; e scrisse i fatti di Lenno e Tessalonica “tra le belle gesta che pur fecero i Saraceni Siciliani,” ingannato anche dalla concisione di Cedreno, il quale suppone Taormina e l'isola di Lenno occupate nella medesima impresa. Lenno fu presa dai Musulmani di Cilicia, capitanati da un altro rinnegato per nome Damiano, l'anno 903; come si scorge dalle autorità che cita il Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXII, § 31; e in particolare da Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 9 e 10, p. 704, il quale porta in anni diversi i due fatti di Taormina e di Lenno. Oltre Giovanni Cameniata si veggano per la impresa di Tessalonica, Theophanes continuatus, lib. VI, cap. XX, p. 366, seg.; Symeon Magister, § 13, 14, p. 705; Leo Grammaticus, p. 277; Georgius Monachus, § 20, p. 862.

<p>185</p>

Cento libbre d'oro secondo Giorgio Monaco, la Continuazione di Teofane, e Symeon Magister, ll. cc. Giovanni Cameniata accenna prima vagamente una grossa somma di danaro, e poi due talenti d'oro, op. cit., § 59, p. 569. Il secondo aggiugne che il danaro servisse agli stipendii e spese dell'esercito in Sicilia (τοῦ κατὰ Σικελίαν στρατοῦ), ma si deve intendere di quello che si pensava far passare di Calabria in Sicilia. Symeon Magister dice che le cento libbre d'oro eran chiuse in un cestellino (κανίσκιος) per recarle ai Franchi. Senza dubbio si tratta degli stessi Franchi di cui fa menzione Ibn-Khaldûn nel 901; e probabilmente erano i duchi di Spoleto e Camerino, che nel IX e X secolo fecero un po' i capitani di ventura. Si vegga sopra a pag. 72, 74.

<p>186</p>

Johannes Cameniata, op. cit., § 39 e 64, p. 569 e 576; Theophanes continuatus, lib. VI, cap. XX, XXI, p. 366, seg.; Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 13, 14, p. 705, seg.; Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 29, 30, p. 862, seg.; Leo Grammaticus, p. 277. Veggasi anche Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXII, § 32, seg.

<p>187</p>

Ibn-el-Athîr, l. c.; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi, 702, A, fog. 53 verso; e la traduzione francese presso M. De Slane, op. cit., p. 433; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 143, dice Ibrahim tornato in Sicilia, e morto all'assedio di Cosenza ch'ei non sapeva essere in Calabria. Il detto ritorno è evidente sbaglio nato dal confondere questa impresa di Ibrahim con quella del figliuolo l'anno innanzi.

<p>188</p>

Giovanni Diacono, testimone oculare ed autor di questo racconto, dice che la demolizione del castello Lucullano fu compiuta il 12 (quarto idus) d'ottobre; il corpo di San Severino recato a Napoli il dì appresso; e le stelle cadenti viste dopo sei dì, che tornerebbe al 18 o al 19. Il Baiân, tomo I, p. 126 e 127, riferisce questo fenomeno al 22 del mese di dsu-l-k'ada, cioè dal tramonto del 27 al tramonto del 28 ottobre: e merita maggior fede, non solo per la solita diligenza di cotesta compilazione, ma anco per l'uso degli Arabi di scrivere i numeri alla distesa, più tosto che in cifre. D'altronde potrebbe supporsi che il copista di Giovanni Diacono avesse notato VI in luogo di XVI o di XV i giorni corsi dal ritrovamento delle ossa di San Severino alle stelle cadenti. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso, ci conduce ad ammettere l'una e l'altra data, poichè fa supporre replicato il fenomeno più o meno per molte sere, dicendo: “In dsu-l-ka'da di quest'anno morì Ibrahim-ibn-Ahmed; e da quel momento furon viste stelle cadenti sparnazzantisi come pioggia a destra e a sinistra; onde fu chiamato l'anno delle stelle.” Questo squarcio è stato tradotto inesattamente da Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte IIª, cap. 75.

Io mi sono intrattenuto sì lungamente ad esaminare questa data, poichè gli scienziati osservano un periodo annuale in tal fenomeno, e che sia più notabile verso il dieci agosto e in novembre. Col medesimo intento il barone De Hammer ha raccolto nel Journal Asiatique, serie IIIª, tomo III (1837), p. 391, alcuni ricordi d'autori arabi in fatto di stelle cadenti; e il baron De Slane vi ha fatto qualche correzione nel tomo IV della medesima serie, p. 291.

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Evangelium secundum Lucam, XXI, 25. Questa riflessione è dell'anonimo autore d'un MS. dell'XI secolo, posseduto dalla Biblioteca di Bamberg, e citato nella raccolta di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica Salernitana. L'anonimo evidentemente ebbe alle mani la narrazione di Giovanni Diacono, ch'ei compendia e guasta.

<p>190</p>

Corano, Sura XV, verso 18; Sura XXXVII, verso 8, seg.

<p>191</p>

Così lo chiama Giovanni Diacono.